
Viaggio di lavoro o di piacere? È questa la domanda che viene posta alla diciannovenne svedese Linnea da un funzionario dell’aeroporto di Los Angeles e la sua risposta tra l’ammiccante e l’alienato, espressione di una personalità già scissa tra rimozione e desiderio, apre sul titolo ambivalente ed ironico di questa rischiosa e spericolata opera prima: Pleasure certo, ma non nell’accezione generica di divertimento da turista per caso capitata nella gigantesca terra dei balocchi hi-tech che è la megalopoli californiana; la ragazzina è determinata a diventare la più grande porno star del giro e la regista Ninja Thyberg ne segue puntualmente e impietosamente l’ascesa tra le piaghe di quel mondo livido e luccicante, mettendo in atto un processo di (de)costruzione del sé frammentato nell’immaginario da luna park morboso della triade corpo-psiche-cuore. Il biancore pallido di Linnea, le labbra carnose, i capelli biondissimi e gli occhi blu sempre spalancati sono lo stigma di una fisicità da bambolina scandinava attraversata da una vibrante, sotterranea inquietudine, il sentimento di orrore e di miseria di non sentirsi vista e amata da nessuno, a cominciare dalla madre . Tutto questo substrato esistenziale è però solo suggerito e diluito nell’osservazione dei luoghi della pornografica losangelina- i set, le case, le feste- dove appaiono spesso, carnali ed evanescenti, i veri protagonisti del prolifico e lucroso settore: pornodivi , pornodive e aspiranti tali, filmati con carrellate orizzontali uno accanto all’altro,come tanti pesci esotici dentro la vetrina di un grande acquario ( è costante la presenza di ville con piscina, simbolo eloquente di lussuria e promiscuità).

L’alternarsi tra un punto di vista più asettico e documentaristico e la percezione soggettiva di Linnea, fino a un fisiologico processo di osmosi per cui l’uno sfuma nell’altra, genera in chi guarda l’effetto a tratti straniante di non rendersi più conto di dove finisce la rappresentazione del sogno/incubo e ne comincia il making off lucido e impietoso. Thyberg non nega dunque allo spettatore la natura voyeuristica e compulsiva dell’atto di vedere un film pornografico, ma ribalta la prospettiva perché rivolge verso o, meglio, contro di noi lo sguardo interno di una donna molto giovane che, per convenzione culturale e sociale, è il soggetto più abusato, mortificato e passivizzato, almeno secondo le pratiche di un certo tipo di pornografia, quella più legata ad una forma di sfruttamento totale del corpo femminile, che non esclude la prostituzione a vari livelli. Linnea, vittima consenziente e insieme oppositrice recalcitrante di quel feudo maschile , si fa testimonianza presente ed esposta , proprio attraverso il suo darsi alle esperienze più radicali (dal bondage estremo fino a scene non simulate in cui viene percossa e torturata), di quanto questo sistema sia gerarchico, rigido e manipolatorio della carne, dei pensieri e delle emozioni. Il climax di una tale perversione di giochi di ruolo e di ribaltamenti del potere è contenuto nella sequenza apparentemente interminabile in cui Linnea, che ha assunto lo pseudonimo “d’arte” di Bella Cherry, attraverso uno strapon (una sorta di cintura con attaccato un pene finto) simula una sequenza insistita di penetrazione che rasenta lo stupro ai danni della collega /rivale divenuta famosa prima di lei e che l’aveva in precedenza umiliata e mortificata. Non si tratta però solo di un’ennesima variazione sul tema della rivalità femminile, con un design e un look che ricordano un po’ le fotomodelle vampire e cannibali del discutibile The Neon Demon, estetizzante e monotono horror di pulsioni e proiezioni diretto da Nicholas Winding Refn. Più che Eva contro Eva in questo caso diremmo che Cane mangia cane, come sentenziava il titolo di un noir feroce e dilaniante su colpa e responsabilità di Paul Schrader, che peraltro con il suo primo film Hardcore si era confrontato con l’industria pornografica nell’ottica di un etico, disperato sgomento, ma anche nel prenderne impotentemente atto come forza catalizzatrice delle fragilità e delle insofferenze di una gioventù sempre più bruciata.

Anche Thyber racconta una storia che, al di là della situazione contingente, si fa metafora di altro, ovvero di una più estesa e indignata riflessione sull’uso strumentale dell’eros concepito e manifestato come continua prevaricazione del più forte sul più debole attraverso l’ utilizzo concreto e simbolico del fallo che, seppur artificiale e applicato come protesi, può controllare, sottomettere e stabilire i nuovi confini del godimento sessuale, all’interno dei quali l’unica cosa certa sembra essere che la donna , per potersi emancipare dal suo ruolo passivo, debba grottescamente indossare gli attribuiti esteriori di un uomo e utilizzarli con la stessa meccanica, mortifera modalità prestativa. Eppure c’è sempre un sussulto di trepidazione, la possibilità di un altrove, uno sguardo che, dall’apparente desolazione di un fuori campo, porta al centro dell’inquadratura la possibilità di una tenerezza e di una complicità: quelle che Linnea/Bella riesce a stabilire con una delle ragazze della prima agenzia di modelle per cui lavora , un legame fragile e necessario scoperto nello stupore di ritrovarsi ventenni spaventate e spaesate, celate dietro una forzata spavalderia, in una terra di orchi senza incanto. E alcune scene notturne di condivisione di gesti e parole nel metafisico non luogo delle strade di periferia di Los Angeles fanno venire in mente gli innocenti e sbandati ragazzini nei giri a vuoto dei sobborghi di provincia in American Honey di Andrea Arnold, anche loro aperti alla bellezza di un sogno lungo un giorno e annichiliti dall’orrore di una realtà senza nessun orizzonte ( in Pleasure la mancanza di una visuale aperta e la conseguente tensione di Linnea a voler guardare oltre è espressa dalle riprese dall’alto verso il basso sulla sua protagonista, a segnarne una condizione di schiacciamento e di dipendenza). Un mondo chiuso e autoriferito, amplificato dalla dimensione social in cui le immagini e i video riprodotti, in una totale, bulimica occupazione della vastità degli spazi virtuali, scompongo in piccoli quadri l’integrità del corpo e, di riflesso, quella dello sguardo, sempre e comunque nel perimetro di un atto meccanico , a cui la posizione in qualche modo moralista della regista toglie lo spessore e la sacralità della ritualità (eros senza neanche più thanatos). Nessuna romantica, grandiosa, struggente visione alla Boogie Nights di Paul Thomas Anderson, che faceva del pioneristico e artigianale porno degli anni’70 una saga collettiva e intima sulla nascita e la fine di un impero , tra Coppola e Citizen Kane; qui ormai il ripiegamento nel privato è arrivato alla sua fase terminale e una decadente civiltà occidentale allunga l’ombra dei suoi lascivi padri ( con il ghigno del produttore di film hard che tanto somiglia ad una versione più lurida di Harvey Weinstein) su quello che rimane di un’innocenza perduta.

Ma forse c’è ancora il tempo per aprire la portiera della limousine e andare via; poteva essere il loculo di un rimpianto e invece diventa lo spazio di un’affermazione e di una volontà: Fermate questo mondo, voglio scendere!
Su MUBI dal 17 giugno
Pleasure– Regia: Ninja Thyberg; sceneggiatura: Ninja Thyberg, Peter Modestij; fotografia: Sophie Winqvist Loggins; montaggio: Amalie Westerlin Tjellesen,Olivia Neergaard-Holm; musica: Karl Frid; interpreti: Sofia Kappel, Revika Anne Reustle ,Evelyn Claire , Chris Cock ,Dana DeArmond ,Kendra Spade, Jason Toler ; produzione: Erik Hemmendorff,Eliza Jones,Markus Waltå ; origine: Svezia , 2021; durata: 105′; distribuzione: MUBI.
