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Se, come sostenne Pier Paolo Pasolini (ai tempi dell’analogico), il cinema è un’arte fragile perché la pellicola impressa (ovvero il suo supporto) è poco più spessa di un’ala di farfalla, oggi (ai tempi del digitale) Leos Carax ci ricorda che ancora di più sono fragili i nostri stessi occhi che, per consentirci di “vedere”, devono essere lubrificati “circa 15-20mila volte in un giorno” dal movimento Eyes-Wide-Shut” delle palpebre. È come se, per vedere, bisogna dunque ogni tanto chiudere gli occhi ed essere ciechi. E allora ci sembra utile “tornare a Derrida”, al suo Mémoires d’aveugle (quel suo breve saggio del 1990 che il filosofo francese, nato in Algeria, scrisse in occasione di una mostra organizzata dal museo del Louvre), dove proprio il binomio vista-cecità veniva ripensato con profitto alla luce della specificità dell’atto poetico-creativo. Scriveva Derrida: «Si tratta di sapere se la vista è un’esperienza del primo tipo, vale a dire che ha a che fare, come spesso si crede, con ciò che sta di fronte, là dove dipingo, disegno, vedo ciò che è qui davanti a me, oppure se la vista ha a che fare, appunto, con l’invisibilità, o con una visibilità che non si pone nell’oggettività o nella soggettività […] la possibilità essenziale del visibile».

C’est pas moi, prima di essere un film autobiografico di Carax, è un’opera che lavora, indagandolo, proprio intorno al senso della vista. È il vedere stesso infatti il vero protagonista, e per un attimo poco importa che in verità è il vedere stesso del cineasta autore del film. Già nell’essere film quella che è la prospettiva di Carax è subito anche quella dello spettatore. Come vedere e come far vedere insomma, cosa vedere e cosa far vedere, come e cosa tramite la presunzione dell’atto creativo far vedere. E infatti si va a tentoni, si procede nell’invisibile che offre nella memoria spunti per rivedere ancora, per ritornare ancora “alle cose stesse”. Come con lo scritto di Derrida, anche il film di Carax nasce da un progetto museale, del Centro Pompidou in questo caso, di allestire una mostra che il regista stesso avrebbe dovuto realizzare, ma che, come spesso accade in fatti dell’arte, non “ha visto poi la luce”. “Dove si trova ora Leos Carax?”, questo sembra sia stato il punto di partenza dell’idea progettuale della mostra. Carax in tutto il film non fa che ribadire che lui, lì dove lo vogliono cercare, non c’è. “A quale io lei si riferisce quando parla di me?”, con voce poco impostata e ancor meno “soggettiva” inveiva Carmelo Bene in note sequenze televisiva italiane qualche decennio fa… Allora, sembrerebbe suggerire Carax stesso, cercate nell’immagini, in quel flusso di autocoscienza visivo-filmica che è tutto C’est pas moi. Da quelle legate all’archivio suo personale (bellissime quelle scene da una Handycam in cui si vede la figlia da bambina) sino a quelle sequenze dei film e degli autori di riferimento per Carax. Da Polanski (menzione speciale per lui) a Godard, da Muybridge a Murnau, da Vigo a Lang. Ma anche dal mondo della musica pop, Bowie in primis, come anche di quella civile di Nina Simone. Dove si può trovare un cineasta se non nello scorrere (che è anche il correre della velocità del cinema, come lo stesso Carax ricorda commentando C’est pas moi) dei “film degli altri”, in cui ci si è sentiti per un attimo fuggente a casa. In quella soggettiva (è lo stesso Carax, che ricorda quella di Juliet Binoche in Mauvais Sang come “l’unica soggettiva che io abbia mai girato”) o piano-sequenza trovati incommensurabili, quasi sublimi, che per molto tempo hanno lasciato inibito il lavoro di chi si apprestava a iniziare a capirci qualcosa di cinema. Per una generazione che poi ha offerto quella tipica qualità fragile di essere sempre, proprio nel suo tempo, un po’ fuori tempo, un po’ fantasma, un po’ memoria omaggio (voluto o meno) di altre inquadrature appunto, insieme ad altri gesti mille volte visti quasi uguali. Con l’accecata originalità del sempre uguale apparente, la novità falsa e insieme innegabile del cambiamento generazionale. Un cinema come generazione ulteriore e continua, come spettro intermedio (e quasi oramai eterno) di ogni “generazione” futura. Poi sempre un “work in progress”, come recita in sovraimpressione una scritta che quasi apre il film. Da questo viaggio o trip, o come dir si voglia, che si chiama C’est pas moi, ne usciamo ancora più amants réguliers dei film di sempre, di tutto il cinema che ancora dobbiamo vedere, “cose (mai) viste”. Siamo in fondo essere che sebbene stiamo crollando dal tanto sonno arretrato, basta che ci portino di nuovo in sala e quello che era sonno si trasforma in sogno visivo più sveglio che mai, più vico che mai. Ed è così, sempre così che i nostri occhi sono e saranno solo Eyes-Wide-Shut.
In anteprima italiana a RENDEZ-VOUS – Festival del Nuovo Cinema Francese (Roma 2-6 aprile 2025)
Dal 15 aprile su IWONDERFULL Prime Video Channels
C’est pas moi – Regia: Leos Carax; Sceneggiatura: Leos Carax; Fotografia: Caroline Champetier; Montaggio: Leos Carax; Interpreti: Leos Carax (LC), Denis Lavant (Monsieur Merde), Kateryna Yuspina (La mère), Nastya Golubeva Carax (La pianiste), Loreta Juodkaite (La spinneuse), Bianca Maddaluno (La soeur), Anna-Isabel Siefken (La plongeuse), Petr Anevskii (Le frère), Juliette Binoche (archival footage), Michel Piccoli (archival footage), Jean-François Balmer (archival footage), Guillaume Depardieu (archival footage), Yekaterina Golubeva (archival footage), Adam Driver (archival footage); Produttori: Charles Gillibert, Leos Carax Produzione: CG Cinéma, Théo Films, Arte France Cinéma, Scala Films, con la partecipazione della casa di moda francese Chanel; Distribuzione: Les Films du Losange; Origine: Francia, 2024; Durata: 41 minuti.
