Ricchi a tutti i costi di Giovanni Bognetti

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Come porsi difronte a Ricchi a tutti i costi, film scritto e diretto da Giovanni Bognetti, visibile dal 4 giugno solo su Netflix? Con quali strumenti cimentarsi in un’analisi critica, data la confezione dichiaratamente televisiva di quella che per nessun motivo potremmo più chiamare “pellicola”? Un prodotto sufficientemente anodino per essere considerato “da esportazione”, essendo del resto stato precedentemente “importato” dalla commedia francese, Mes très chers enfants, di cui questo film è il sequel del remake (Natale a tutti i costi, diretto dallo stesso Bognetti due anni fa con più o meno lo stesso cast). Perfetto insomma per essere fruito da uno spettatore qualunque degli ormai (dopo la fulminante satira abbozzata da Nanni Moretti ne Il sol dell’avvenire) celeberrimi 190 paesi che è in grado di raggiungere Netflix.

Un cinema (lo si dice per convenzione, giacché qui siamo oramai dentro una vicenda del tutto televisiva) che non ha nemmeno più troppo da spartire con la tradizione nazionalpopolare della Commedia all’italiana: eredita semmai qualche stilema di quella filiazione vagamente degenere che furono i “cinepanettoni”, a partire dal protagonista maschile, Christian De Sica; il quale sciorina qui il suo solito umorismo grassoccio a base di turpiloquio gratuito che gli ha tuttavia consentito di toccare numeri inauditi (ha vinto ben 32 Biglietti d’oro!) e di ricevere l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito dalle mani del presidente della Repubblica. Sebbene l’età e certe esperienze recenti (I limoni d’inverno e Un altro ferragosto di Paolo Virzì) sembrerebbero avergli conferito una levità che ai tempi dei “cinepanettoni” gli era ignota, un understatement che lo aiuta a recitare in sottrazione.
Una commedia dal sapore più apolide che cosmopolita, che potrebbe essere ambientata ovunque, principalmente dentro il contesto semantico del mainstream hollywoodiano, di cui mutua una certa superficialità di sguardo unita alla convenzionalità di approccio ai temi che affronta. Anche i rispettivi registri comici dei due mattatori, il suddetto De Sica (che alterna una postura nobilmente tronfia e solenne, che cita papà Vittorio; seguita dalla imminente sua negazione, legata alle pratiche basse del turpiloquio), e Angela Finocchiaro (che insiste sulla perfida corrosività di una certa comicità dell’assurdo tutta milanese) sembrano al principio sparare a salve, come se le loro gag avessero le micce bagnate.

La trasferta della famiglia a Minorca, per ragioni che tra poco sveleremo, fornisce poi allo sceneggiatore Bognetti il pretesto per imbastire una serie di scene sulla falsariga del modello della “commedia turistico-balneare” e al regista Bognetti, che viene dal marketing e dalla pubblicità, di prodursi in un florilegio di panoramiche, carrellate, dolly, gru e droni di marca meramente descrittiva, da video promozionale di una proloco.
Anche la cosiddetta “sospensione dell’incredulità” (ammesso che la si ricerchi in un’opera siffatta) è obliterata ab ovo, essendo francamente troppo inverosimile il “MacGuffin” da cui scaturisce la trama: in questo sequel la famiglia Delle Fave pianifica nientemeno che la soppressione fisica dell’amoroso drudo interpretato dalla new-entry Ninni Bruschetta, che ha intenzione di impalmare la nonna milionaria per – così almeno si pensa – farla secca. Dacché la comedy (l’uso del vocabolo anglofono non è puramente casuale) vira sul thriller di stampo farsesco, dove sai già subito che, per quanto efferati siano i fatti narrati, come in Willy il Coyote, nessuno si farà mai davvero male; in una pista già tracciata di recente da certi esempi di comicità cinico-macabra tipo Metti la nonna in freezer della premiata ditta Fontana-G Stasi. Oppure, riandando all’epoca dei mostri\mattatori degli anni ’60, seguendo l’esempio de Il vedovo con Alberto Sordi, dove tuttavia il gesto abominevole era paradossalmente giustificato proprio a causa della mostruosità di quel carattere su cui si intendeva satireggiare.
E qui allora, però, qualcosa inizia a stridere; ricordandoci ancora una volta (come tramandato dalle analisi di Maurizio Grande) che la commedia, anche quella apparentemente più innocua e corriva, riesce sempre a porsi come utile sismografo dei mutamenti sociali e antropologici della realtà che rappresenta; persino a prescindere dalle intenzioni dei suoi autori.
Il primo scarto che ci racconta di come la commedia di Bognetti è meno superficiale di come la stavamo raccontando risiede nella costatazione che se negli anni del rampantismo sociale del primo miracolo economico tali gesti li concepivano i “mostri” alla Alberto Sordi (come appena rammentato), nella nostra epoca delle passioni tristi l’omicidio volontario lo congetturano le placide famigliole medio-borghesi, ed è una morte un po’ peggiore (ed un interessantissimo indizio da seguire).

Ecco emergere così, sequenza dopo sequenza, la faccia triste della contemporaneità; sotto la patina luccicante del “cine-cocomero” by Netflix, inizia a farsi strada una certa satira non del tutto all’acqua di rose dell’avidità spregiudicata che alligna in questa come molte altre famiglie, disposte a tutto pur di soddisfare i propri capricci consumistici: il papà la barca, il figlio la casa, la figlia la sala da the.
Ecco così che – grattata la superficie della confezione e adoperando un’ottica di giudizio meno severa – ci si accorge che a ben vedere il paradosso macabro dell’assunto è un mero pretesto, tramite il quale il regista si incarica di vergare sul proprio taccuino delle notazioni per nulla banali, raccontando la società contemporanea in un modo che in definitiva risulta essere tutt’altro che paradossale.
Colpisce soprattutto, per vividezza di toni e verosimiglianza sociologica, il ritratto dei due figli millennials (la generazione degli “sdraiati”, per dirla con Michele Serra), ammalati di autocommiserazione generazionale e di disarmante apatia. Alessandra, interpretata da Dharma Mangia Woods, incarna molto precisamente la giovane donna insicura dei nostri tempi, afflitta da palesi pulsioni auto-sabotatorie; Emilio, interpretato da Claudio Colica, è invece il classico giovane uomo fragile e subalterno dei nostri lustri, nato per perdere (molto “tipicamente” rinvenibile nella società post-patriarcale, al di là dei dogmi assertivi della narrazione dominante).
Pure il ritratto dei due genitori boomer, tanto apparentemente affettuosi quanto in realtà costantemente pronti a vessare la prole, perennemente indecisi tra una pedagogia eccessivamente autoritaria e una colpevolmente permissiva, risulta molto preciso.
La morale della fabula che castigat ridendo mores (perché da Aristofane in poi ogni commedia possiede in fondo una morale purchessia) è forse dunque nell’azzeramento di valori che impera nella attuale società iper-consumistica del capitalismo assoluto, disposta a ogni abiezione pur di soddisfare i propri capricci individualistici, ammantandoli a buon bisogno di ragioni tanto nobili quanto pretestuose. Un Armageddon assiologico in cui non si salva nessuno, se pure il teatrante “un po’ zingaro e un po’ peone” di Ninni Bruschetta – che è fuggito da quel benessere, e dall’Occidente tout-court, come un personaggio di Salvatores – è in definitiva descritto come un vanesio, fatuo e narcisista.

Su Netflix dal 4 giugno


CREDITS & CAST

Ricchi a tutti i costi Regia: Giovanni Bognetti; soggetto: basato sul film Mes Très Chers Enfants scritto e diretto da Alexandra Leclère; sceneggiatura: Giovanni Bognetti; interpreti: Christian De Sica, Angela Finocchiaro, Dharma Mangia Woods, Claudio Colica, Fioretta Mari, Ninni Bruschetta; fotografia: Federico Annicchiarico; montaggio: Walter Marocchi; musica: Teho Teardo; produzione: Colorado Film (Gruppo Rainbow) Sony Pictures International Productions; origine: Italia, 2024; durata: 6 episodi da 60’ circa; distribuzione: Netflix.

Foto: Loris T. Zambelli

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