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Nel 1982 Wim Wenders, con Chambre 666, fece qualcosa di più che realizzare un documentario sullo stato delle cose del cinema, dando la parola a una serie di registi presenti (Fassbinder, Antonioni e Herzog tra gli altri) a quell’edizione del Festival di Cannes, dentro la camera 666, appunto , dell’Hotel Martinez. Riuscì a creare uno spazio sospeso e intimo, nel quale ogni cineasta, da Godard a Spielberg al regista turco Ylmaz Guney, all’epoca in prigione per motivi politici e che partecipò a distanza grazie a un’intervista registrata dallo stesso Wenders, riflettevano, nella come non mai aristotelica unità di azione, spazio e tempo impressionata su un rullo di pellicola di 16 mm per la durata di 11 minuti circa, sul futuro del cinema rispetto alla sua durata e sopravvivenza come linguaggio e come arte. Quello spazio/tempo/azione, proiettato tra quarant’anni moltiplicati al quadrato dall’esperienza costrittiva e introspettiva della Pandemia del 2020, approda alla Room 999 (in un’ ironica dicotomia numerica tra satanico e angelico), titolo del film diretto da Lubna Playoust: una camera del medesimo hotel e di un altro Festival di Cannes, quello del 2022, anche qui con una trasversale generazione di auteurs (lo stesso Wenders e David Cronenberg, ma anche Monia Chokri, Nadav Lapid o Alice Rohrwacher che chiude con un bel messaggio eco-pacifista).
Cosa è cambiato intorno al punto centrale, ovvero la percezione che il cinema sia un’arte minacciata in continuazione in particolare dai contingenti mutamenti tecnici, dai cambiamenti sociali e culturali, dalla riformulazione di immaginari, orizzonti di senso e di forma? Un elemento, nella sua marxista concretezza di “cosa” che permette di sognare il cinema, riguarda proprio il formato attraverso il quale vengono riprodotte e diffuse le immagini. Se nel 1982 la sempre più ingombrante presenza della televisione come mezzo permanente e in loop del braccio armato, sorta di protesi meccanica e automatizzata della società dello spettacolo, minacciava le dimensioni e le frequenze della visione, l’attualità, che prosegue nell’appendice dell’attuale 2024, si riflette su uno schermo, non più solo televisivo (almeno nel significato generalista del termine), fatto di piattaforme virtuali, finestre ipertestuali e menù interattivi. L’ intervento in apertura di Wim Wenders pone in maniera piuttosto critica e pessimistica proprio la diffusione massificata del digitale, anche e soprattutto come impoverimento del processo creativo di realizzazione delle immagini, in quanto appiattimento, disarticolazione e frammentazione di una personalità in cerca di originalità e singolarità E, dopo una serie di constatazioni abbastanza catastrofiche (con un’ amara e sarcastica chiusa: “Vi auguro il meglio per vostro futuro!), dove c’è un ponte tra quello che succederà alle immagini e quello che in qualche modo succederà all’umanità, da parte di un Wenders la cui filmografia ha invece attraversato con grande intensità vitale l’ultima stagione cinematografica (Perfect Days o Anselm, in questi giorni in programmazione in Italia), l’auto sguardo degli altri partecipanti alterna momenti di apertura dialettica con il nuovo supporto/media rappresentato finanche dal basico utilizzo dello smartphone ( Joachim Trier inneggia al contrario alla “democratizzazione” degli sguardi) a dichiarazioni di sconforto e pessimismo , in adesione con le poetiche del regista interpellato: ad esempio James Gray (peraltro a Cannes quell’anno per presentare il suo Armageddon time, odissea familiare tra il tempo della storia privata e quello della storia pubblica) radicato in una concezione di racconto e in un immaginario forti, messi in discussione dal relativismo e dalla casualità meccanica e neutrale dell’algoritmo.

Traspare in ogni intervento la necessità che le immagini sopravvivano in uno spessore cinematografico, in una peculiarità e un’integrità che dopo quasi mezzo secolo vogliono essere (ingenuamente?) mantenute , anche da giovani autori di cortometraggi in attesa dell’esordio nel lungometraggio, nel desiderio di continuare a stare in e a pensare a una progettualità che mantiene un contatto, una relazione, una risonanza con il Cinema. E la statura autoriale di Wenders, a cui fa da contrappunto la maggiore elasticità di Cronenberg nell’apertura verso la possibilità delle nuove tecnologie (sempre in sintonia con la sua visione trasformatrice e ambivalente del progresso) restituisce una cornice non solo di riferimento e di continuità pur nel passaggio di sogni e bisogni da un’epoca all’altra, ma il tentativo di resistenza alla costruzione di un macrocosmo audiovisivo composto da non luoghi e veicolato da, almeno secondo il regista tedesco, una connessione che rimane illusoria e presunta, producendo all’ opposto isolamento e dispersione. C’è chi, come Claire Denis, propone un godardiano anno zero, partendo dal presupposto che già stiamo vivendo e filmando le macerie nascoste sotto il tappeto scintillante dell’offerta on demand, per ritornare alla libertà artistica ed espressiva dei piccoli film, delle produzioni indipendenti, fuori dalla logica, prima ancora che algoritmica, di perdite e profitti della società neoliberista. Un sottotesto politico che attraversa l’identità multietnica dei filmakers partecipanti, e la questione trasversale di un’inedita, monocorde colonizzazione culturale degli immaginari tradotti in un unico e neutrale linguaggio. Un moloch di uniformi neologismi che, per parlare a tutti, ha sbilanciato il rapporto del cosa dire e come dirlo dalla necessità, dal coraggio e dalla spregiudicatezza del soggetto libero e indipendente alla funzionalità, all’opportunismo e all’accessibilità dell’oggetto da fruire.
C’è poi l’aspetto rilevante del fattore umano, nel 1982 come nel 2022 (con il surplus della sopravvivenza post covid), con i cineasti in presenza nel loro corpo, le loro voci e le loro differenze linguistiche; testimonianze eterogenee, solide e non statiche, perché comunque nel flusso dell’elaborazione intellettuale ed emotiva sull’esorcizzato fine vita del cinema, che lasciano un segno permanente e rigenerante.
Non resta altro, prima, durante e dopo le parole dei visionari che transitano per questa “non obscura” camera-mondo , se non i gesti, i silenzi, gli sguardi e le esitazioni (attenzione a guardare oltre i titoli di coda) sui quali spicca una performance in particolare: la danza quasi hip hop di Kirill Serebrennikov che rinuncia alla parola e decostruisce lo statuto, volutamente provocatorio, delle domande sulla morte, come per restituire allo schermo la leggerezza di una superficie dove poter scivolare e continuare a disegnare le proprie coreografie.
In sala dal 6 maggio 2024
Chambre 999– Regia: Lubna Playoust ; fotografia: Marine Atlan; montaggio: Nicolas Longinotti; musica: Pierre Rousseau ; con: Wim Wenders, Audrey Diwan, David Cronenberg, Joachim Trier, Shannon Murphy, James Gray, Arnaud Desplechin, Lynne Ramsey, Asghar Farhadi, Nadav Lapid, Claire Denis, Davy Chou, Buz Luhrmann, Alice Winocour, Ayo Akingbade, Olivier Assayas, Paolo Sorrentino, Agnès Jaoui, Kirill Serebrennikov, Christian Mungiu, Kleber Mendonça Filho, Albert Serra, Monia Chokri,Ninja Thyberg, Pietro Marcello, Rebecca Zlotowski, Ali Cherri, Ruben Östlund, Clement Cogitore, Alice Rohrwacher; produzione: MK PRODUCTION In collaborazione con WIM WENDERS STIFTUNG e il Festival di CANNES con Il supporto di CHANEL; durata: 85 minuti; origine: Francia, 2023; distribuzione :CG Entertainment.
