Samad di Marco Santarelli

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Samad era nel narcotraffico, faceva la staffetta. Guidava la macchina che precedeva quella col carico di droga. In un mese guadagnava quanto ora in un anno. Adesso finalmente è fuori, libero come una bandiera al vento. Ha patteggiato, fa il giardiniere. Ritorna in galera perché, raccontando la sua nuova vita, possa fungere da esempio e ispirazione. Ma lo fa nel giorno sbagliato, quello della rivolta. Il film del romano Marco Santarelli, una vita nel documentario sociale, nasce durante le riprese del suo secondo doc in carcere, Dustur, girato nel 2015 presso la casa circondariale Dozza di Bologna. Dal desiderio di approfondire temi fondamentali che riguardano un’istituzione che dovrebbe favorire la rieducazione e il reinserimento sociale, e si trasforma invece troppo spesso in un coacervo di violenza e di risentimento. Più precisamente qui ci si concentra sui sottotemi di radicalizzazione, sottomissione e apostasia. E soprattutto ci si interroga su quanto oggi in Italia sia difficile perdere lo stigma di chi ha alle spalle un passato di detenzione. Ci sarebbe un disperato bisogno di un cinema carcerario, che racconti questo peculiare universo concentrazionario che può trasformarsi in un inferno terrestre, come ci dicono le raccapriccianti immagini provenienti dall’Istituto Penale per i Minorenni di Milano “Beccaria”, grondanti atti di feroce abuso di potere ai danni di minori in stato di privazione della libertà. Un luogo “dove vittima e carnefice condividono lo stesso destino”, come si legge nel pressbook di Samad. Genere cinematografico (il cosiddetto “prison-movie”) che conta esempi indimenticabili nel cinema d’impegno civile hollywoodiano di stampo liberal, come Brubaker (1980) con un monumentale Robert Redford; ma che ha avuto nella produzione nostrana una inattesa fioritura soprattutto in ambito seriale: si sta pensando principalmente alla serie Rai, Mare fuori, giunta alla quarta stagione, generando dei veri e propri fenomeni di divismo teen e fanatismo “grupie”. Per dire del trend, va menzionata anche la serie targata Sky, Il re, con Luca Zingaretti, già arrivata alla seconda stagione; senza dimenticare il recente esempio cinematografico di Ariaferma di Leonardo Di Costanzo con Silvio Orlando e Toni Servillo, già su un piano più alto. Il problema però è che si tratta di una produzione che per ovvi motivi finisce per favorire gli elementi di spettacolarizzazione più entertaining, spesso indulgendo nelle sotto-trame romantiche, in luogo di quelli più drammatici. Forte del bagaglio artistico accumulato frequentando il cosiddetto “cinema del reale”, Santarelli ci prova, elevando il coefficiente di veridicità del racconto, che come appena sottolineato già deriva da una sua precedente indagine sul campo. Peccato che, per restare fedele a quel modello di riferimento (il “documentario del reale”), il regista finisca per appesantire il ritmo di una narrazione cinematografica qua e là un po’ statica, priva della necessaria tensione che un modello di racconto siffatto pretenderebbe. Anche le dinamiche interpersonali tra guardie e ladri, ricostruite in modalità fictional, risultano talvolta paradossalmente un po’ artificiali. Tanto che allo spettatore verrebbe quasi voglia che si lasciasse più spazio alle immagini di repertorio delle vere rivolte nel carcere di Modena nel 2020 durante la pandemia, che il regista inserisce qua e là proprio per conferire maggior verosimiglianza al racconto. Ottima in tal senso l’idea di popolare il cast di molti attori non professionisti: alcuni di loro sono ex detenuti formatisi nei laboratori di teatro e conosciuti da regista durante le sue precedenti esperienze “carcerarie”, altri sono giovani artisti marocchini del collettivo bolognese Cantieri Meticci; ma le interazioni cogli altri interpreti del film (tra cui anche Roberto Citran nei panni del religioso Padre Agostino) risultano talvolta decisamente macchinose e non del tutto sincere. Insomma il dialogo tra il sistema enunciativo proprio dei codici di racconto del cinema documentario e quello che gli anglosassoni definiscono “feature film” (il cinema narrativo di finzione) non sempre riesce a produrre soluzioni drammaturgicamente apprezzabili. Vi è il detenuto carismatico, quello più rissoso, il folle, il saggio; così come c’è il poliziotto buono e quello cattivo (qui per soprammercato pure “terrone” e razzista); c’è il prete coraggio e la giornalista arrivista; quasi a costituire una plausibile galleria di “tipi fissi” ereditata dalla tradizione letteraria e cinematografica di settore. Peccato che essi scontino però uno scollamento sia dal massimo di veridicità del “cinema del reale” sia dai canoni espressivi del cinema di finzione, non riuscendo a soddisfare fino in fondo nessuna delle due istanze rappresentative. Peccato, dicevamo, perché i temi che il film mette sul tappeto sono quelli giusti: oltre alla violenza ordinaria, fisica e psicologica, agita in carcere; anche le difficoltà talvolta irrisolvibili del dialogo interreligioso: Islam vs. Cristianesimo; la legittimità di un culto professato in sedi decenti vs. il rischio di infiltrazioni fondamentaliste, tutela del rispetto delle tradizioni vs. paura dei contagi degli estremisti della sharia. Le conseguenze delle migrazioni che hanno trasformato il mar mediterraneo in un cimitero d’acqua e la necessità di mantenere viva la linea di comunicazione con la madrepatria. Il velleitarismo dei rivoltosi e il braccio violento della legge. Oltre – ça va sans dire – alla solita ottusità repressiva delle istituzioni. Santarelli tuttavia questi temi si accontenta di sciorinarli in forma ora inquisitoria ora indignata, ma per quanto si sforzi non sempre riesce a tramutarli in narrativa cinematografica. Tanto che Samad finisce al postutto per risultare un’eccellente occasione sprecata. Nonostante questi limiti che a noi sono parsi evidenti,  il film (realizzato col patrocinio di Antigone, associazione che si occupa di promuovere i diritti e le garanzie nel sistema penale e penitenziario) è un’opera che va comunque inseguita nelle poche copie in cui sarà distribuito e visto; perché accende i riflettori su una zona d’ombra verso la quale nessuno vorrebbe guardare. In sala dal 13 maggio 2024
CREDITS & CAST SamadRegia: Marco Santarelli; soggetto e sceneggiatura: Marco Santarelli, Giancarlo Balmas; fotografia: Andrea Locatelli; montaggio: Edoardo Morabito; musica: Matteo Ruperto; interpreti: Mehdi Meskar, Roberto Citran, Marilena Anniballi, Luciano Miele; produzione: The Film Club e Kavac Film con Rai Cinema; origine: Italia, 2023; durata: 78 minuti; distribuzione: Kavac Film in collaborazione con KIO film.

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