Senza fine di Elisa Fuksas

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“Non hai ieri, non hai domani. Tutto è ormai nelle tue mani, mani grandi. Mani senza fine”.  Le parole della canzone che Gino Paoli scrisse nel 1961 per Ornella Vanoni, continuano a vestire perfettamente il corpo e lo spirito dell’ ottantasettenne cantante milanese, fin dalla prima, folgorante apparizione che apre l’omonimo film incentrato, come lo era il brano di Paoli, non tanto e non solo su di lei, quanto sulla relazione ricercata e costruita dalla regista Elisa Fuksas con lei.

È abbastanza spiazzante dunque vederla comparire nell’incipit avvolta da un voluminoso abito fitto di strascichi e di veli , completamente immersa in un ‘acqua a metà strada tra l’ inquietante presentimento di un gorgo oscuro e lo soavità irreale del liquido amniotico fuoriuscito da una partenogenesi senza più carne e sangue (e dunque senza fine);  in quello che potrebbe sembrare un mare, Ornella esegue un movimento rotatorio, flusso inestricabile della grazia dell’eterna ragazza al di là dei conformismi di ogni epoca (inclusa la convenzione dell’età)  e del vissuto denso di una donna capace di esporsi al di fuori del suo status di diva, icona e mito;  sempre in questa prima sequenza  non ci è dato vedere il suo volto e ne intravediamo appena l’inconfondibile capigliatura arancione, come se fosse una regina  decapitata dalla tensione verso l’assoluto o una bambola fatta di stracci affogata in un oceano di fotogrammi sovraesposti; una, nessuna e centomila spinta fino al proscenio di un palcoscenico liquido, in continua oscillazione tra vita e rappresentazione.

Ci si chiede da subito che tipo di rapporto abbiano avuto Fuksas e Vanoni per aver portato la regista a decidere  di aprire con un’immagine che, escludendo tutto il resto, anche la voce, evoca e fa confluire tutte le possibili interpretazioni delle Ornelle del passato, del presente e del futuro. Basta la sequenza successiva però a farci cambiare già  di tono e di prospettiva e a calarci esplicitamente nella dimensione di un documentario nel suo farsi e disfarsi , con il primo appuntamento tra Ornella ed Elisa che avviene in un non luogo dell’ordinario  come l’autogrill di un’autostrada sulla direzione per il vero set di questo traslato racconto biografico. Il centro termale, con annesso hotel in stile retrò, più che un non luogo è invece il luogo della memoria e delle proiezioni, che accoglie e avvolge le gambe anch’esse senza  fine della Vanoni, in un abbraccio all’interno del quale lei, sempre indomabile,  non si trova mai completamente a sua agio, stordita forse da quel sentore di stagnante, mortifera apatia vacanziera ed estiva.

All’abbandono e all’inebriante perdita di coscienza  delle tante “piccole morti” per orgasmi che la Vanoni provocava con il suo maliardo, erotico canto di sirena di ingenue avanguardie protofemministe (evocando e tenendo le redini del potere dell’Eros tra le sue “mani grandi”), si sostituisce la presenza fuori campo ma ingombrante della “Morte Grande”, quella che non ammette ripetizioni di ciak o reiterazioni di comportamenti narcisistici,  da esorcizzare in nome di una creatività autoironica e dissacrante  e da integrare come tanti frame invisibili di un filmato d’archivio. Una sovrabbondanza di suggestioni e ispirazioni  che rompe gli argini delle inquadrature comunque ariose e vitali sui paesaggi lacustri , in un progressivo prevalere della luce, dal giallo intenso agli arancioni sfumati, e qualche detour di chiaroscuri sull’ indole talvolta depressiva e più spesso oppositiva di Ornella.

In Senza fine avviene comunque qualcosa di insolito rispetto al copione di una storia, quella di una delle più trasversali interpreti della musica colta (gli inizi al “Piccolo” con Giorgio Strehler e le canzoni della mala) e popolare (le “canzonette” virate dalla raffinatezza del cantautorato italiano e brasiliano) celebrata tante volte all’interno della rutilante kermesse dei salotti televisivi; uno scenario quasi all’ordine del giorno per frequenza e assiduità  in cui la Vanoni ha continuato ad essere presente con i suoi segni e le sue trasformazioni, e a parlare con la sua voce che è diventata più vibrante, cavernosa, proveniente da un altrove che diventa immediatamente familiare, in connessione con il nostro inconscio collettivo,  con i sentimenti che abbiamo introiettato e condiviso in forma di suono e parole.

A decostruire tutto c’è però l’incontro tra due donne con i loro specifici ruoli, autrice del film una  e protagonista del medesimo l’altra, in un gioco di specchi, di doppi e di inversioni: Elisa filma infatti anche i vuoti e le assenze di Ornella, fino a simularne lei stessa la presenza, recitando le battute di una sceneggiatura scritta per la Vanoni dove, se non fosse ancora abbastanza chiaro dalle scelte formali (ogni luce, ogni inquadratura, ogni cut di montaggio visivo e sonoro vanno in una direzione anti realista), è il testo a dichiarare che c’è una costruzione e una messa in scena. È un peccato che questa pre-testualità appaia in alcuni momenti come una pretenziosità, e che la necessità dello sguardo lasci il passo al gioco, peraltro dichiarato, dello scontro tra gli ego di due “primedonne” che si stanno prendendo le misure nel concedersi e nel ritrarsi: ci chiediamo , ad esempio, che bisogno c’era di interpolare con delle interruzioni di ripresa o dei cambi di focale della m4p le due conversazioni, semplici e profonde nella loro linearità, di Ornella rispettivamente con Vinicio Capossela e Samuele Bersani (continuum di un dialogo mai interrotto con una lingua musicale analoga e vicina a quella dei Vinicius De Morales o dei Gino Paoli). Un controllo della forma indispensabile magari per tenere testa alla statura del Mostro Sacro Vanoni , denudata fino alla sua essenza di totem, di simulacro livido e vivido di carne che Fuksas vorrebbe fosse il centro intorno a cui continua a scorrere il girotondo finale di facce e fantasmi dell’8 ½ felliniano; in realtà, tra brevi frammenti di saune e bagni attraversati da corpi candidi e rugosi, totali interni ed esterni della hall di un albergo o di un bosco d’estate, e perfino un ballo in una balera romagnola, il riferimento sembra essere l’immaginario avvitato su stesso di Paolo Sorrentino, e in particolare il suo film più pachidermico per il peso delle immagini-simbolo e del (disperato) narcisismo autoriale, ovvero Youth-la giovinezza: anche lì c’era un incontro/scontro tra un regista in declino (Harvey Keitel) e la sua attrice/musa di un tempo (Jane Fonda), attraversato in quel caso dall’amarezza dei fallimenti, dell’invecchiamento , della decadenza barocca di un mondo sul viale del tramonto . Ma nella scena in cui la Fonda scopre che il suo mentore si è suicidato, quando si strappa la parrucca e il trucco urlando di rimpianto e dolore, si tocca forse la verità nucleare di quella relazione.

Elisa Fuksas non è certo interessata a questa dinamica sadomasochista, eppure c’è un primissimo piano della sua Vanoni, così ravvicinato sulle cicatrici e sugli eccessi di un volto bigger than life, che, proprio in nome della complessità non consolatoria e non risolta della verità, suscita simpatia, pietas e terrore, con la prevalenza del primo sentimento sugli altri.

Perché in fondo Ornella ce la immaginiamo sorniona uscire da quel mausoleo di fanghi e maschere, e cadere in un universo parallelo, in un film scritto da Jean Claude Carriere e diretto da Nagisa Oshima su una cantante che va a dormire donna e si risveglia sirena.


Cast & Credits

Senza fine– Regia: Elisa Fuksas; sceneggiatura: Elisa Fuksas, Monica Rametta; fotografia: Simone D’arcangelo, Emanuele Zarlenga; montaggio: Michelangelo Garrone; interpreti: Ornella Vanoni, Elisa Fuksas, Vinicio Capossela, Samuele Bersani, Paolo Fresu; produzione: Tenderstories Wildside, Indiana Production; origine: Italia 2021; durata: 80′; distribuzione: I Wonder Pictures.

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