Solo di martedì: L’eco dei fiori sommersi di Rosa Maietta (Roma, Cinema Greenwich, 25 febbraio ore 21)

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Libertà. Non è una volta, camminare fuori sotto la Via Lattea, sentendo i fiumi
Di luce, i campi di buio –
La libertà è un continuo, prosastico ricordare quotidiano. Mettere insieme, pezzo dopo pezzo i mondi stellari. Da tutte le collezioni perdute.
(Adrienne Rich)

Rosa Maietta, giovane regista beneventana con alle spalle alcuni cortometraggi (Senectus Ipsa MorbusParusia napoletana e Vorago) e vincitrice del primo premio allo sviluppo nell’ambito di In Progress del Milano Film Network nel 2022, con il suo primo lungometraggio decide da subito di affrontare emergenze complesse. Prodotto da Ladoc (che l’anno scorso aveva colpito nel segno con Vittoria, rivelazione italiana a Venezia 2024) e presentato ora nella rassegna romana “Solo di martedì”, L’eco dei fiori sommersi è infatti un titolo che apre d’impatto a figurazioni e immagini spazio-tempo stratificate, e che riesce nell’intento non facile di annodare insieme molte cose importanti. C’è un’interrogazione, in risonanza con i trauma studies, sulla possibilità o ancor più sulla necessità di dare parole e immagini a un trauma. C’è la consapevolezza e il desiderio di non poter non entrare in campo – campo reale, memoriale e politico – con il proprio sguardo, che lo diciamo subito è uno sguardo lento e non prevaricante, dispositivo affettivo e non autoritario che lascia il tempo alle cose di accadere e a chi guarda di abitare ciò che vede (e in tempi correnti, fatti di immagini sempre più muscolari, sature e ciniche, un modo di questo tipo appare davvero uno sprazzo di luce). C’è l’urgenza (l’ethos) che viene prima della cognizione, che vuol anche dire che il tempo della riflessione arriverà e che non sarà mistificato da presunzioni di oggettività e di neutralità.
Rosa Maietta sta dalla parte delle donne che racconta, mondi personali e storie collettive che il dominio patriarcale ha messo ai margini, in una penombra dove arbitrii, soprusi e violenze restavano impuniti (e le donne mute). Emma, Giovannina e Linda, riemergendo dal silenzio cui erano state forzatamente ridotte, nel film di Maietta trovano uno spazio pubblico dove poter prendere parola.

Questo rapporto tra generazioni, in cui l’ultima, che è anche quella della regista, tenta la ricostruzione della memoria della generazione che l’ha preceduta (o comunque che l’ha segnata in una genealogia che per Maietta trova pensiero e anche casa nelle pratiche dei femminismi) e che ha vissuto un evento traumatico non ancora adeguatamente riconosciuto, è ciò che anche accomuna, in modo interdisciplinare, molti ambiti della cosiddetta “postmemory”. Postmemoria che “si distingue dalla memoria in primo luogo per la distanza generazionale dall’evento traumatico, e in secondo luogo anche per la forte connessione personale ed emotiva con lo stesso, che aggiunge potenza alla ricostruzione, creando quasi una nuova memoria nelle generazioni che non hanno fatto esperienza diretta dell’evento, attraverso il ricorso all’immaginario personale e collettivo” (M. Hirsch).

Significativo che la regista abbia scelto, per affrontare questa ricostruzione (tra testimonianza e riattivazione performativa: punti di vista diversi con cui osservare a distanza o ri-vivere il sintomo), un luogo come l’archivio (l’Archivio di Stato di Napoli), il cui rapporto con la memoria, striato di un rigore e una cura nella catalogazione e manutenzione dei documenti, talvolta solo conservati altre volte quasi ri-vissuti (siamo dei formalisti, ma poi non possiamo non appassionarci… confessa una delle archiviste mentre sfoglia la pagine di un fascicolo come fosse pelle viva e insieme un oggetto mentale), si pone lontano anni luce dagli interessi che muovono troppo spesso la costruzione di memoriali, o addirittura l’organizzazione di tour all-inclusive, con cui allevare a un “turismo della memoria” (con tempo mordi e fuggi).

Nelle parole della stessa Maietta: “il film attraversa le parole fredde e tecniche scritte da giudici e periti, tra il Settecento e il Novecento, per incontrare e immaginare l’emozione di chi una voce non l’ha avuta, nemmeno su quei fogli: le donne”. L’amore per quelle donne, per l’eco che ancora oggi convoca la presenza di un testimone, che vuol anche dire la possibilità di uscire fuori da quell’isolamento e da quella negazione (del trauma subito, in primis) in cui il contesto dominante di riferimento le ha rinchiuse, in Maietta diventa anche la possibilità di posizionarsi, di attuare, cioè, un rapporto con un punto di vista, con le storie raccontate e con chi guarda. Splendido e particolarmente significativo, in questo senso, il piano sequenza a seguire e poi a precedere, disegnato dalla camera di Francesca Amitrano, che senza soluzione di continuità accompagna il percorso dell’archivista sotto gli archi del cortile interno dell’Archivio di Stato. Emergenze estetiche ed etiche che producono uno sguardo e una cura della relazione con le quali non ridurre a oggetti o cose i rapporti che attraversano il reale. Laddove stare nella densità del rapporto e non nella pretesa della strumentalità vuol dire anche implicare il proprio punto di vista con domande – ancora evidentemente attuali – sulla verità e la giustizia.

Le emulsioni footage di petali e corolle (la parte interna del fiore, la più delicata e insieme pulsante) che echeggiano le iridescenze del mare – un campo totale subacqueo, con la mdp immersa nel mare, è l’inquadratura che apre il film – suggeriscono che è in atto una fioritura. Ce lo dice anche la sezione sonora, con la musica intensa, a tratti discreta, altrimenti vigorosa, di Rosalia Cecere e il limpido lavoro sul suono di Marco Saitta. Perché il film non si arresta a documentare la condizione di vittima ma, e con amore, apre con libertà e forza visiva a una poetica del desiderio – che è anche il modo con cui restituirlo alle donne a cui è stata negata la possibilità di esprimerlo.

Senza voler svelare alcune sorprese, un’ultima nota: la regista adopera l’archivio e la tartaruga (sorpresa un po’ rivelata) come fossero anche delle case. A parte la bellezza delle geometrie e dei segni del tempo di entrambe, filmate con attenzione e poesia, il rapporto, qui più simbolico, sembra anche quello della costruzione di uno spazio e di un tempo differenti, con cui poter immaginare e restituire un riparo e un orizzonte di senso a chi, accompagnato tutta la vita da una sensazione di sradicamento e di anonimato, ha subito una violenza.

Presentato a Filmmaker Milano 2024 (Concorso Prospettive)
Al Cinema Greenwich di Roma il 25 febbraio 2025 ore 21


L’eco dei fiori sommersi  – Regia,  sceneggiatura e montaggio: Rosa Maietta; fotografia: Francesca Amitrano; musica: Rosalia Cecere; animazione: Gaia Alari; produzione: Lorenzo Cioffi per Ladoc; origine: Italia, 2024; durata: 67 minuti.

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