Super Happy Forever – La ragazza dal cappello rosso di Igarashi Kohei

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A Izu, penisola nipponica non lontana da Tokyo, e in particolare nella località di villeggiatura di Atami, nota per aver ospitato molta filmografia del grande Ozu, pensiamo soltanto a Viaggio a Tokyo e alla sequenza dei due anziani coniugi che guardano il mare, Sano e Miyata, due giovani amici che vivono nella capitale, incontrano Nagi, la ragazza dal cappello rosso cui allude la traduzione italiana del più iconico e sferzante Super Happy Forever, ritrovandosi insieme a guardare lo stesso mare.

E similmente ad Ozu, il talentuoso Igarashi Kohei utilizza sia il piano fisso che il classico campo/controcampo non tanto per dare conto di una certa prospettiva né soltanto per creare una efficace interazione tra i personaggi o tra questi e i luoghi. Quello che piuttosto sembra eccedere ogni singola inquadratura e ogni possibile rappresentazione è infatti una specie di vibrazione che intensifica i luoghi e i corpi guardati rendendoli paesaggio – non solo nel senso denotativo o conoscitivo ma anche in quello qualitativamente percettivo, che disorienta il nostro sguardo e la centralità della prospettiva. Anche perché i personaggi che, nei rizomi del desiderio e nelle ripetizioni del caso, abitano quei luoghi e quei corpi, hanno a che fare con la materia stessa con cui è fatto il cinema: la presenza/assenza di una sequenza, la coincidenza e la perdita di uno sguardo, il ritrovamento per caso e l’ossessione di far tornare il passato, l’alternanza o la coalescenza tra vita e morte. Con delicatezza ma anche con una cadenza a tratti quasi orrorifica (o piuttosto sublime?), quello che in definitiva vediamo scorrere sullo schermo tra i tre protagonisti, a cui aggiungiamo la quarta, ovvero An, la ragazza vietnamita che lavora nell’albergo e che pulisce le camere abitate dagli altri tre, sono storie d’amore e di fantasmi. Anche perché non va dimenticato che il film è la storia dell’elaborazione di un lutto.

Allo stesso tempo, quello di Igarashi, è un cinema molto attento agli snodi del racconto e alla complessità psicologica dei personaggi, seppure attuati senza sottrarre nulla ai tempi misteriosi e stratificati che animano un incontro o un innamoramento.

Il film è diviso in due parti anche se il luogo rimane lo stesso: Atami e un hotel dove soggiornano tutti e quattro i protagonisti. Il tempo invece è quello più lungo di due atti che accadono a cinque anni di distanza ma che vediamo in una temporalità inversa: nel primo Sano torna ad Atami dopo che Nagi è morta da pochi giorni; nel secondo Sano e Nagi si incontrano nell’hotel di Atami e si innamorano. Questo all’osso. Perché in realtà quello che vediamo accadere tra il primo e il secondo atto è molto, molto di più; anche se di fondo, come nel miglior modernismo, non sapremo mai davvero cosa sia successo. Il gesto filmico che può rendere la complessità del film è quello che appunto raccorda la prima alla seconda parte: un carrello laterale che, in modo magistrale e sorprendente, attraversa la camera in cui Sano è seduto, raccolto nel suo dolore, e ci porta per la prima volta in presenza di Nagi, che in una diagonale vediamo entrare nella stessa camera con al collo la sua inseparabile macchina fotografica. Questo modo di spazializzare il tempo rompe il classico plot di un prima e un dopo, producendo una sorta di “falsa successione”. In questo modo la spazializzazione del tempo consente sia di recuperare il passato, ciò che si è perduto, sia di aprirsi al campo vasto delle altre relazioni possibili, delle interpretazioni plurime, dei divenire molteplici.

Nagi ci appare da subito un personaggio irrequieto, malinconico ma allo stesso tempo preso nel fuoco di una irriducibile ricerca, e non nel senso di una immagine passata, come invece sembra fare Sano, nel suo stanco e reiterato incedere quasi sulle orme di Orfeo. Nagi per certi aspetti forse ricorda il wendersiano Felix di Alice nelle città, anche se da esso differisce per il tipo di ricerca, più aperta verso imprevisti e particelle minime che possono scompaginare programmi e appuntamenti e ridisegnare la realtà verso altri possibili -più passaggio al limite che dismisura spettrale, per capirci. E il personaggio di Nagi non solo inverte il senso del racconto, di modo che, come accade nella poesia, in una invisibile linea verticale le immagini successive gettano luce su quelle precedenti (il contrario di ciò che accade nella narrazione lineare causa-effetto), ma di più arriva a sovvertire la percezione di ciò che abbiamo appena visto. Igarashi ci porta di nuovo sui luoghi visti nella prima parte del film, ma stavolta con lo sguardo di Nagi, che percepiamo molto più mobile ed enigmatico di quello di Sano, e che questiona quanto abbiamo visto e appreso nel primo atto per via del punto di vista del ragazzo. Anche il suo desiderio ci appare in costante movimento, oscillante tra sottrazione e slanci, e non fisso soltanto su Sano -che ruolo ha l’amica con cui sarebbe dovuta venire in vacanza? E l’incontro, imprevisto e così spontaneo e fluido, con An? I piccoli moti sul volto di Nagi sembrano raccontarci costantemente qualcos’altro. E d’altronde è lo stesso Sano, nella prima parte del film, a marcare improvvisi tratti aggressivi e istrionici nel suo modo di stare in relazione, e a dire di Nagi: ”non era felice”, per poi aggiungere “sono stato un codardo”. E cosa sta a significare la ricerca del cappellino rosso che lega insieme tutti gli elementi del film? Chi lo indossa, alla fine, in quella che sembrerebbe una presa di coscienza rispetto alla soggettività e al desiderio? E poi, ancora, lo stesso carrello laterale sarebbe stato più logico se si fosse mosso da destra a sinistra, verso il passato, perché in avanti non va la malinconia ma il desiderio, e quindi?

Il notevole film di Igarashi è animato da un amore per il cinema e da quello che appare come un desiderio di creare, anche qui, un paesaggio di alleanze, più che un raccordo in forma di citazione: con la nouvelle vague (il film precedente, Takara, la notte che ho nuotato, del 2017, lo ha co-diretto con il francese Damien Manvivel), e in particolare con Rohmer e Truffaut, con Ozu, Kitano e Hamaguchi, con Pedro Costa e Miguel Gomes (con cui condivide anche l’uso dell’unico brano che compone la colonna sonora del film, Beyond the sea di Bobby Darin, versione in lingua inglese de La Mer di Charles Trenet, usata da Gomes in Grand Tour), ma soprattutto con Cassavetes -”un altro regista che mi piace – così Igarashi- è John Cassavetes, che ho scoperto proprio nel momento in cui ho deciso di diventare un regista. Il modo complesso e umano in cui descrive le relazioni è una vera ispirazione”.

Perché sono immagini incompiute che parlano a qualcuno, quelle di Igarashi, storie strane e poetiche che invitano al viaggio, all’incontro e alle relazioni.

“Da qualche parte al di là del mare, da qualche parte mi sta aspettando”.

Film d’apertura delle “Giornate degli Autori” – Mostra di Venezia 2024.
In sala dal 25 settembre 2025.


Super Happy Forever – La ragazza dal cappello rosso (Super Happy Forever)  –Regia: Igarashi Kohei; sceneggiatura: Igarashi Kohei, Kudobera Koichi; fotografia: Takahashi Wataru; montaggio: Okawa Keiko, Igarashi Kohei, Manivel Damien; musica: Daigo Sakuragi; scenografia:  Masato Nunobe; interpreti: Hiroki Sano (Sano), Yoshinori Miyata (Miyata), Nairu Yamamoto (Nagi), Hoang Nhu Quynh (Anh); produzione: Oki Makoto, Yusako Emoto e Martin Bertier Damien Manivel per MLD Films, Nobo; origine: Giappone/Francia, 2024; durata: 94 minuti; distribuzione: Trent Film.

 


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