“When you slow something down, you begin to see things.”
(Bob Wilson)
Si è spento all’età di 84 anni negli Stati Uniti, Robert “Bob” Wilson, regista, scenografo, artista visivo e poeta della scena contemporanea. Con la sua scomparsa, il teatro mondiale perde una delle sue voci più pure, radicali e inclassificabili, capace di rivoluzionare il linguaggio della scena come pochi altri nel Novecento.
Wilson non è stato solo un regista: è stato un architetto del tempo e dello spazio, un demiurgo della luce, un cartografo dell’invisibile. Per lui il teatro non era rappresentazione, ma esperienza sensoriale, rito visivo, meditazione in movimento. Le sue opere non si limitavano a raccontare, ma scolpivano l’attesa, il silenzio, la durata.
Fin dagli esordi negli anni Settanta, con lavori come Deafman Glance e A Letter for Queen Victoria, Wilson ha imposto una grammatica scenica completamente nuova: movimenti lenti e rituali, luci fredde e geometriche, scenografie visionarie, suoni sospesi tra minimalismo e sogno. Ogni suo spettacolo era un mondo a parte, dove la parola perdeva centralità, e lo spettatore era invitato a guardare, ascoltare, percepire.
L’incontro con Philip Glass, da cui nacque il capolavoro Einstein on the Beach (1976), segnò una svolta: il teatro di Wilson diventava opera totale, dove musica, gesto, luce e immagine coesistevano senza gerarchie. Da quel momento in poi, il grande regista americano ha attraversato i grandi classici – da Hamletmachine di Heiner Müller a Woyzeck di Georg Büchner, da La donna del mare di Henrik Ibsen a Lohengrin di Richard Wagner– sempre filtrandoli attraverso la sua estetica essenziale e ipnotica.
Bob Wilson ha incarnato una rara fusione tra arte performativa e arte visiva. I suoi bozzetti, disegni, installazioni e progetti espositivi sono parte integrante della sua visione, e spesso sono stati esposti nei più importanti musei del mondo. Non dirigeva semplicemente spettacoli: costruiva paesaggi interiori, riflessi della memoria, del tempo, del sogno.
Fondatore del Watermill Center a Long Island, è stato anche un generoso mentore e scopritore di talenti, offrendo a giovani artisti da tutto il mondo un luogo in cui sperimentare e crescere fuori dai circuiti commerciali.
In un’epoca sempre più frenetica, urlata, narrativa, Bob Wilson ha scelto di rallentare, di togliere, di contemplare. Il suo teatro non era fatto per “piacere” ma per resistere, per interrogare, per rallentare il battito del mondo. Alcuni lo hanno definito freddo, ermetico, elitario. Ma chi ha saputo ascoltarlo sa che dietro quella geometria si nascondeva un’emozione profonda, silenziosa, quasi sacra.
Oggi, nel ricordarlo, ci restano i suoi spettacoli come mappe da rileggere, le sue luci come ferite nel buio, i suoi corpi come ideogrammi. Bob Wilson ha insegnato che il teatro non ha bisogno di parole per dire la verità. Che un gesto lento, una pausa, una luce bianca su un volto immobile possono raccontare l’universo.
Se ne va un visionario, un monaco del palcoscenico, l’ultimo artista rinascimentale del nostro tempo. Il sipario non cala: resta aperto, come uno squarcio sul silenzio.
