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Il rito è un atto sacrale ricorsivo, da ripetersi periodicamente. Un atto artistico è invece una performance che ex abrupto interrompe la quotidianità del vivere comune. Differenti nei tempi e nelle motivazioni, entrambi sono portatori un’eccezionalità dirompente che aspira al divino e riconferma la natura umana del restante. Ma cosa succede quando un atto artistico è anche rito? O meglio, quando un rito è atto artistico?
Il prodotto alimenta i singoli fattori e quindi un po’ del sacro e un po’ dell’ex abrupto percola nello stesso calderone, ma il calderone risulta indigesto, perché eretico ai più: se il rito di una religione è riconosciuto dai suoi credenti e oscuro a coloro che non credono, un rito che è soltanto performance e privo di un Credo a sostenerlo, risulta incomprensibile a tutti. Tranne che ai cerimonianti/artisti che lo compiono.
A questo punto, in questa chimera di rito e atto artistico, a finire sul banco degli imputati non è il solo atto performativo, ma l’arte stessa: cosa può permettersi di fare l’arte in questo mondo borghese e represso? E gli artisti cosa sono? E qui arriva Bergman.

Perché tutta questa messinscena?
Nato inizialmente come testo per il teatro, Il rito fu trasformato da Bergman in un’opera cinematografica, pensata per la televisione e girata interamente in bianco e nero. Riten (1969) fu concepito come una “partitura filmata per primi piani”, opera intima e claustrofobica, girata interamente in interni e con soli quattro personaggi, modalità usuale per il regista svedese.
Per volontà di Alfonso Postiglione, lo spettacolo torna ora perciò alle origini, al teatro, e si configura come un viaggio disturbante nell’animo umano, nelle contraddizioni delle relazioni interpersonali: tra coloro che si mangiano l’anima per mestiere e nella vita (gli artisti) e colui che l’anima è abituata a pesarla (il giudice).
Hans, Thea e Sebastian sono i mangiatori di anime. In pratica, artisti. Per l’oscenità di un loro spettacolo, appunto Il rito, sono convocati dal giudice Abrahmsson. Quest’ultimo è uomo sepolto nelle carte e nel lavoro, indesiderato da tutti, persino da se stesso. Il contatto tra un uomo dell’Ordine e tre persone dell’arte fa scintille. Mentre il trio si disarticola nei loro legami tossici (Thea è moglie di Hans ma amante di Sebastian), il giudice si rende conto della pochezza della propria vita nonché del limite del proprio ruolo da giudice, inadeguata a giudicare qualcosa di multiforme quale l’arte. Lui, che è personificazione di un’intera società, quella borghese.
Per comprendere appieno la faccenda, il giudice va a colloquio con ognuno di loro. Durante gli incontri emergono le ambigue dinamiche del trio: passioni, rancori e tensioni malcelate. Incapace di giungere a un verdetto, il giudice chiede di assistere alla controversa performance, direttamente nel suo ufficio. L’atto conclusivo si trasforma in un rito dionisiaco dalle profonde implicazioni simboliche, culminando in un epilogo drammatico e inaspettato.
Voi siete liberi. Avete una terribile libertà. Forse ridete di me.

La regia di Postiglione parte da una scenografia chiusa, una grande scatola bianca al centro della quale si eleva una piattaforma sospesa, nera, l’ufficio del giudice Abrahmsson. Il giudice non può uscire dalla sua nera prigione, mentre gli artisti si muovono attorno a esso, liberi di andare e venire, di essere massa bianca come massa nera. La loro è una danza libera attorno alle istituzioni, senza macchiarsi; colui che si macchia, poiché elemento debole, è la figura di Stato. La regia dell’intero spettacolo evidenzia il gioco pericoloso in atto, dando una geometria al tutto, con lo studio dei movimenti, posizioni e infine con l’utilizzo della schiena a pubblico. Le maschere possono così cadere, l’una alla volta: il giudice, inizialmente cerimoniere imparziale, si rivela un uomo fragile, consumato dalla solitudine, mentre gli artisti espongono le relazioni malate, in bilico tra il bisogno di libertà e il desiderio di autocompiacimento.
La performance finale è in parte caricatura, falsificazione: il rito è così parodia moderna delle Baccanti di Euripide, dove gli artisti assumono il ruolo di sacerdoti dionisiaci, mentre il giudice incarna l’autorità cieca e moralista di Penteo. Il potere sovversivo dell’atto creativo è così messo in primo piano, capace di scardinare le certezze morali e sociali. In parte, il rito ha una sua natura catartica e liberatoria, un atto di auto-rappresentazione, e perciò l’arte si configura come l’unica vera sacralità possibile, in un mondo svuotato dalla perdita di Dio e dell’uomo.
L’arte ritorna così al centro, anzi, la religione dell’arte torna al centro: Credo che non ha adepti e che al contempo può avere chiunque come seguace, soprattutto in una società che lo nega, lo reprime.

Spettacolo coraggioso e ben architettato, spettacolo esigente nei confronti dello spettatore, Il rito di Postiglione è un lavoro dall’ottima impostazione, meno comprensibile nella resa finale. Ma ci troviamo davanti a un’opera di Bergman portata in scena, e quindi quello a cui assistiamo non è un dialogo tra persone, bensì un dialogo tra inconsci. E quindi è da decifrarsi con il tempo, utilizzando la chiave di lettura di noi stessi. In quanto persone.
Dal 21 al 26 gennaio al Teatro Vascello, Roma.
Il rito di Ingmar Bergman – regia: Alfondo Postiglione; traduzione: Gianluca Iumiento; adattamento e regia: Alfonso Postiglione; scene: Roberto Crea; costumi: Giuseppe Avallone; musiche: Paolo Coletta; disegno luci: Luigi Della Monica; partitura fisica: Sara Lupoli; aiuto regia: Serena Marziale; interpreti: Alice Arcuri, Giampiero Judica, Alfonso Postiglione, Antonio Zavatteri; produzione: Ente Teatro Cronaca, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival; durata: 100 minuti.
