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Voto
La proliferazione delle saghe horror, da sempre caratteristica ascrivibile a questo genere, sembra aver trovato ormai una sorta di trasposizione cinematografica del concetto di serialità web, invertendo la tendenza secondo cui fino a un certo punto era stata la televisione a convertire in format la potenziale episodicità e ripetitività di alcuni prodotti cinematografici. Ecco, seguire la serie di The Conjuring, ideata, prodotta e per una paio di capitoli diretta da James Wan, reticente autore di altre lunghe saghe sempre improntante all’horror (Saw, Insidious) richiede l’attenzione, per durata e per frequenza, che sarebbe necessaria per seguire una serie trasmessa su qualche piattaforma: difatti l’uscita in sala di The Conjuring-il rito finale coincide con la riproposizione su Netflix dei primi capitoli ( L’evocazione e Il caso Enfield) e dei vari spin-off (Annabelle e The Nun) che portano a quota dieci i titoli di questo ormai acclarato multiverso audiovisivo. In particolare, i film sotto la dicitura The Conjuring hanno come protagonisti due personaggi realmente esistiti, i demonologi e operatori dell’occulto Ed e Lorraine Warren (lei con presunti poteri di veggenza ), ai cui casi “reali” si ispirano le varie storie di case, oggetti e individui, spesso bambini o giovani donne come vuole la tradizione dell’immaginario da L’esorcista in poi, posseduti da demoni di varia provenienza e multiforme manifestazione. In quest’ultimo (?) racconto si torna all’origine di un trauma irrisolto, quando la loro figlia Judy nacque morta, blandita dalla maledizione di un demone che Lorraine aveva evocato toccando uno specchio maledetto, e venne poi riportata alla vita dalla fede e dalla volontà extrasensoriale e in contatto con il trascendente( nella basica e tradizionalista dicotomia Dio/Diavolo) della madre.

Questo conto in sospeso è l’incipit da prequel che si trascina dietro il progredire degli eventi, intrecciati con il nuovo caso della solita numerosa famiglia proletaria di un sobborgo urbano, con un’alta incidenza di figlie femmine, nella quale capita lo specchio stregato che sarà il canale attraverso il quale l’entità malefica si impossesserà di quell’illibato spazio domestico ( verrà ironicamente accolto come regalo per la cresima di una delle ragazze da parte dei premurosi nonni). Lo svolgimento è dunque piuttosto schematico, con i riluttanti Warren (nel capitolo precedente lui ha avuto un attacco di cuore) che accettano il caso nonostante abbiano deciso di ritirarsi, soprattutto perché il demone in questione è lo stesso che aveva messo in pericolo la vita della loro Judy neonata e che ora, alle soglie del matrimonio della ragazza, torna a insidiarla. Quest’ultima parte del racconto è in realtà, almeno fino a un certo punto, quella più interessante e paurosa, e offre almeno un paio di situazioni visive notevoli: Judy infatti ha ereditato in parte i poteri “visionari” di Lorraine e fin da piccola, come il ragazzino di The Sixth Sense-Il sesto senso, poteva vedere non tanto la gente morte in cerca di aiuto, quanto il parterre di demoni e presenze nefaste combattute dai genitori. Una dimensione dalla quale è stata tenuta fuori e protetta e che, nolente o volente, diviene il suo coming of age sia su un piano simbolico (l’ingresso nell’età adulta con il matrimonio e la conseguente maternità, in una visione piuttosto conservatrice e cattolica del ruolo della donna…) che su quello concreto di una battaglia fisica e materiale da non poter rimandare.
Sul piano registico l’epifania di Judy da nascitura morta-a bambina terrorizzata e tenuta nascosta dal principio paterno/materno di controllo-a donna che affronta e guarda in faccia l’orrore è reso in un ‘alternarsi di occhi aperti e chiusi, di apparizioni e sparizioni iconiche (la bambola Annabelle, un po’ il prequel, cronologicamente parlando, di tutta la saga fa il suo inquietante capolino), di filastrocche recitate pensando, infantilmente, di spezzare la catena di spavento e persecuzione; un mantra, al contrario, che alimenta il processo regressivo di Judy e la mette in una condizione di maggiore vulnerabilità verso il demone che si nutre della sua paura immaginativa, onirica e mnemonica ( nulla di nuovo comunque, se si pensa al Freddy Krueger del wescraveniano Nightmare-Dal profondo della notte, anche se in quel caso si trattava, in maniera più perturbante, di inconscio, pulsioni e colpa). E la sequenza di lei vestita da sposa, in un camerino circondato da specchi che ne moltiplicano l’immagine e la frammentazione dell’io in una situazione che invece dovrebbe riportarla alla compattezza, alla solidità e alle radici, con tanto di demone strega che si infila sotto la voluminosa gonna in una non velata allusione sessuale, sorprende e lascia il segno. Certo, rispetto a due ore di film antologico, con i soliti jumpscares, gli oggetti che si rompono e si ricompongono, i corpi che vengono scaraventati da una parte all’altra (con il rischio del comico involontario dietro l’angolo) e soprattutto la famiglia, raddoppiata e triplicata, minacciata ma sempre in grado di resistere, di sopravvivere, di uscire segnata sulla pelle e illesa nella sostanza.

E il punto critico di questo modo di fare cinema horror è proprio questo: ogni elemento appare esteriore, artefatto, spasmodicamente teso alla ricerca dell’effetto e non all’affondo in un conflitto con il Male che la cornice religiosa dentro la quale operavano i Warren (con tanto di prete esorcista) riduce ai minimi termini di una risoluzione e di una consolazione, tra chi vince e chi perde ( e il Bene vince sempre…). Cosa ne è stato della struggente malinconia con la quale Regan MacNeil dopo essere stata liberata dalla possessione si congedava dall’unico prete sopravvissuto nel finale del capolavoro di William Friedkin? Sulla sua ombrata espressione passava tutto il senso di aver fatto i conti con un male interiore, umano, prossimo molto più faticoso da estirpare che non quello a cui riusciamo a dare una forma di interpretazione e di contenimento fideistico. Il mondo di The Conjuring fa invece molto affidamento sulla tenacia del credere/vedere come strumento catartico, sulla fiducia dei legami e delle relazioni di un sottoproletariato del resto molto prolifico e unito ( non ci sono divorzi o crisi coniugali). Una visione che però impedisce di sentire profondamente il disagio provocato da quegli avvenimenti, che vengano percepiti, diciamo così, come accidentali e non come intrinsechi alla limitata, corruttibile e caotica esistenza umana.
Cosi l’ultima(?) veggenza di Lorraine non può che riguardare un futuro di felicità, prosperità e successo di lei e ED come nonnini dai capelli canuti che accolgono figli, generi e nipoti. Un’immagine, quella sì, da far accapponare la pelle…
In sala dal 4 settembre 2025.
The Conjuring – Il rito finale (The Conjuring: Last Rites) – Regia: Michael Chaves; sceneggiatura: Ian Goldberg, Richard Naing, David Leslie Johnson-McGoldrick; fotografia: Eli Born; montaggio: Gregory Plotkin, Elliot Greenberg; musica: Benjamin Wallfisch; interpreti: Vera Farmiga, Patrick Wilson, Mia Tomlinson, Ben Hardy, Rebecca Calder, Elliot Cowan, Steve Coulter; produzione: New Line Cinema, Atomic Monster, The Safran Company; origine: USA, 2025; durata: 135’; distribuzione: Warner Bros. Italia.
