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Quasi dieci anni fa un opera assolutamente straordinaria, che ancora oggi viene ricordata come uno dei lavori più scioccanti e potenti mai realizzati, irrompe nel panorama del cinema documentario. Con The Act of Killing, Joshua Oppenheimer invitò ex membri delle squadre della morte indonesiane a rievocare i massacri degli anni ’60 mettendoli in scena come se fossero scene di film di gangster, western o musical. Ne esce un incredibile viaggio disturbante nella memoria, nell’impunità e nella spettacolarizzazione della violenza.
Oppenheimer si proponeva – e riusciva – a far esplodere in un enorme cortocircuito, il concetto di rievocazione, tramutandolo in rielaborazione violenta, esaltata, e priva di pudore o redenzione da parte dei protagonisti, fu veramente qualcosa di mai visto prima. Poco dopo uscì il documentario gemello, The Look of Silence, che metteva faccia a faccia vittime e carnefici in un altro vertiginoso e grottesco gioco di confronti.
Poi il regista americano scompare dai radar. Per quasi dieci anni non si hanno più sue notizie. Riemerge qualche mese fa con il suo primo lungometraggio di finzione: Questo The End, che viene presentato in anteprima al Biografilm Festival, un progetto ambizioso, con un cast importante, dal quale però nessuno sapeva con esattezza cosa aspettarsi.
L’incipit del film mostra un ragazzo che sta lavorando alla riproduzione in scala di un paesaggio e… comincia a cantare, lentamente un armonia orchestrale over lo accompagna. Ma quindi il film d’esordio di Joshua Oppenheimer, il regista di The Act of Killing, è… un musical?
Lo strano oggetto filmico comincia a prendere forma: ci troviamo in una sorta di bunker post-apocalittico, dopo che – in seguito a una catastrofe ambientale – tutti i combustibili fossili del pianeta hanno preso fuoco. L’ambiente esterno è ostile, anche se non descritto nei dettagli: sappiamo solo che non è più abitabile per gli esseri umani. Nel (lussuosissimo) bunker vive una famiglia composta da una madre che sembra sempre sul punto di crollare (Tilda Swinton), un padre apparentemente equilibrato e benevolo (in passato probabilmente è stato un oligarca)(Michael Shannon), un figlio che potrà avere 24 anni (non viene specificato)(George MacKay), che i genitori continuano a trattare emotivamente come se ne avesse 13, una sorta di maggiordomo (Timothy L. McInnerny), e un’amica della madre (Bronagh Gallagher).
La narrazione del passato – di ciò che è stato, delle famiglie precedenti, dei ricordi – viene tutta presentata al ragazzo, implicito giudice in quanto creatura che non sa nulla di com’era il mondo prima, come verità. Alcuni dei presenti nascondono segreti, altri hanno raccontato bugie sul proprio passato, arrivando a mentire persino a sé stessi. Ma tutto questo verrà alla luce quando, un giorno, fuori dal bunker si presenta una ragazza stremata (Moses Ingram). Accogliere uno sconosciuto è sempre stato contro le regole del piccolo nucleo, ma erano vent’anni che nessuno si faceva vivo.
Sicuramente The End ci ha spiazzati. Al di là di ciò che ci aspettavamo da un regista come Oppenheimer, il film incuriosisce. È girato con mano sicura, possiede una qualità fotografica eccezionale, ambienti e scenografie curate nei minimi dettagli, una sapiente ricerca cromatica negli interni, ampie stanze con appesi alle pareti enormi dipinti, idealizzazioni quasi tolkieniane di paesaggi naturali ed eventi cataclismatici, (si rifanno al particolare stile di pittura paesaggistica romantica americana, proveniente dalla Hudson River School, chiamato American Luminism) che, assieme agli scorci delle parti esterne, strane e minacciose gallerie ghiacciate, (in realtà si tratta di una miniera di sale sotto la Sicilia) rendono gli ambienti uno spettacolo per gli occhi, che da solo vale la visione.
I difetti del film però, pesano più delle qualità. A dirla tutta, possiamo individuarne anche uno solo, ma enorme: la scelta di farne un musical. Una scelta che azzoppa e affossa completamente la visione. Così, un film che avrebbe potuto reggersi su una durata contenuta di un’ora e tre quarti si dilata in un’estensione forzata di due ore e mezza, e si teme il momento in cui il personaggio di turno sta per abbandonarsi al canto, in un contesto che invoca ben altri registri, tempi e linguaggi.
Come nel famigerato Joker: Folie à Deux, l’inserimento dei brani appare posticcio, inutile, non integrato nella trama e spesso fastidioso. In entrambi i casi si ha la netta impressione che il film sia stato concepito originariamente senza l’elemento musicale, e che questo sia stato innestato in un secondo momento.
Impressione sbagliata però, una volta che si apprende come sia nata l’idea di The End: Tutto ebbe inizio quando Oppenheimer, alla ricerca di un soggetto per ampliare e proseguire la tematica dei suoi due documentari precedenti, intervista un oligarca che gli aveva raccontato una storia molto interessante: Trovai un magnate del petrolio in Asia Centrale che aveva commissionato atti di violenza per ottenere le sue concessioni petrolifere, e stava comprando un bunker per la sua famiglia. Mi portò a vedere il bunker insieme a loro, e io morivo dalla voglia di fargli delle domande: come pensi di scappare? Come affronteresti il senso di colpa o la catastrofe da cui stai fuggendo? Come convivresti con il rimorso di aver lasciato indietro i tuoi cari? Come cresceresti una nuova generazione in quel luogo, come modo per ripulire il tuo passato ai tuoi stessi occhi? Come racconteresti la tua storia alla nuova generazione che cresceresti lì dentro, riscrivendola per te stesso? Ma non potevo porre quelle domande, prima di tutto perché non lo conoscevo abbastanza. E poi perché capivo che, anche se gliele avessi poste, non sarebbe stato in grado di rispondere. Tutto il progetto di acquistare un bunker si basava sulla negazione.
Tornando a casa, frustrato dall’impossibilità di realizzarne un documentario e cercando di schiarirsi le idee, Joshua si guarda uno dei suoi film preferiti: Les Parapluies de Cherbourg, di Jacques Demy, (1964) e questa è stata la scintilla che ha ispirato il film.
Sulla qualità musicale dei brani, c’è poco da dire: piatti, banali. Anche nella messa in scena delle coreografie, gli spunti interessanti sono pochissimi. Se togliessimo tutti i numeri musicali, il film riacquisterebbe una sua personalità e diventerebbe un’opera che, pur raccontando una storia non originale, presenta alcuni momenti e sfumature che – se solo fossero stati approfonditi con più interesse, andando a frugare davvero nel rimosso della psiche dei personaggi – avrebbero potuto portare a un risultato molto più convincente, pare invece, che l’indagine psicologica non si voglia mai spingere oltre un certo limite.
Se per ritrovare due titoli musical davvero memorabili devo risalire a Moulin Rouge! (2001) e Chicago (2002), che sono film di più di vent’anni fa, comincio personalmente a pensare che qualcosa si sia smarrito nella tradizione del genere.
Ad ogni modo The End è un’occasione sprecata, sicuramente. Ma una cosa Joshua Oppenheimer ha saputo fare bene: sfruttare le potenzialità del cast. Michael Shannon e Tilda Swinton interpretano personaggi scritti in modo approssimativo ma diretti con precisione, e la loro presenza scenica è potente e suggestiva. Menzione speciale per Timothy L. McInnerny, il maggiordomo, che dona al suo personaggio una grazia e una personalità straordinarie, nonostante le poche inquadrature che gli vengono dedicate. Senza infamia né lode Moses Ingram e Geoerge McKay, i due giovani protagonisti, fanno quel che devono, ma sono gli “adulti” a tenere banco.
In sala dal 3 luglio 2025.
Il regista Joshua Oppenheimer sarà presente in sala per incontrare il pubblico in tre proiezioni speciali: il 3 luglio a Roma al cinema Barberini, il 4 luglio a Milano al cinema Beltrade e il 6 luglio a Milano all’Anteo Palazzo del Cinema.
Il “Cinema Ritrovato” gli dedica un omaggio sabato 5 luglio a Bologna, proiettando The End alla sua presenza al Modernissimo e in Piazza Maggiore i suoi due precedenti documentari The Act of Killing e The Look of Silence.
The End – Regia: Joshua Oppenheimer; fotografia: Mikhail Krichman; montaggio: Niels Pagh Andersen; musiche: Joshua Schmidt, Marius de Vries; interpreti: Tilda Swinton, Michael Shannon, George MacKay, Moses Ingram, Bronagh Gallagher, Tim McInnerny, Lennie James, Danielle Ryan; produzione: Final Cut for Real; in collaborazione con MUBI, Wild Atlantic Pictures, Dorje Film, Moonspun Films, Anagram; origine: Danimarca/Germania/ Irlanda/ Italia/ Regno Unito/ Svezia, 2024; durata: 148 minuti; distribuzione: I Wonder Pictures.
