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Voto
Nonostante il titolo annunci che il racconto ruoterà intorno alla storia di una vita, The life of Chuck in realtà sembra essere popolato più dal fantasma della memoria articolata secondo una complessa struttura di flashback e flashforward. Tratto da un racconto di Stephen King, che ha fatto delle presenze fantasmatiche e dell’elaborazione in chiave multidimensionale dello spazio e del tempo una delle caratteristiche ricorrenti della sua scrittura, questo adattamento cinematografico è prodotto, diretto, scritto e montato, in un quadruplice gesto piuttosto autoriale, da Mike Flanagan ( che aveva già curato in maniera cosi completa sul piano espressivo e tecnico la trasposizione di un altro romanzo di King, Doctor Sleep, sequel peraltro di Shining , il romanzo e il film). Con una struttura episodica a ritroso, l’inizio è già la fine e non solo di una vita, quella di Charlie Krantz malato terminale di cancro, ma dell’intera umanità devastata da una serie di catastrofi naturali che portano con sé le peggiori notizie del mondo in cui viviamo: alluvioni, terremoti, incendi (quelli che recentemente hanno distrutto una buona parte della California). Ma non c’è alcun eccesso di disperazione o isteria. Al contrario, a parte lo smarrimento accorato degli sfollati, c’è una vibrazione struggente di perdita da epoca già post, da sopravvissuti che si fermano a riflettere sul senso della vita e delle cose veramente importanti in mezzo a una distruzione annunciata da tempo e per questo forse dolentemente e arrendevolmente attesa.

Sembra di assistere ad una versione intimista del finale di Deep impact di Mimi Leder, uno di quei disaster movie realizzati tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, quando il passaggio da un secolo all’altro aveva prodotto una forma di preoccupazione per il futuro che sarà, in cui le relazioni tra i personaggi, e soprattutto i legami familiari perduti e ritrovati sulla riva di uno tsunami, contavano più dell’evento catastrofico in sé. E il filo conduttore di questa apocalisse si racchiude tutto nell’arco temporale dell’esistenza di un singolo, che nel primo capitolo viene presentato sotto forma di una pubblicità, un manifesto, la sovraimpressione di un annuncio sulle frequenze interrotte della tv. Charles Krantz: 39 Great Years! Thanks, Chuck!, recita lo slogan che non promuove in realtà nulla e si riferisce ad uno sconosciuto uomo qualunque. “L’ultimo meme dell’umanità”, dice Marty, il maestro delle medie che attraversa la città in fiamme per ricongiungersi alla ex moglie e aspettare insieme la definitiva dissolvenza in nero. Ma Chuck non è un meme, un segno oppure il (quasi) spettro evocativo del grado zero a cui è ridimensionato il respiro sia del racconto che della Storia. Nel tornare indietro, non c’è una regressione, anche proprio letterale, dalla morte alla fanciullezza, ma la restituzione di una tridimensionalità del soggetto, ridotto alla proiezione di sé stesso in un augurio peraltro celebrativo e consolatorio. Così nel secondo atto, quasi esclusivamente raccontato dalla voce del narratore off, il Chuck adulto e ancora vivo e vitale diventa il ballerino di una jam session improvvisata sulla strada da una batterista e trova nella partecipazione di una ragazza in mezzo al pubblico, appena abbandonata dal suo compagno, l’inaspettata partner di un passo a due che sembra uscito dal numero di un musical (con qualche riferimento anche alle riformulazioni di La la land). Questo numero è la breccia, il colpo al cuore che ci permette di raggiungere il nucleo pulsante di questo enigmatico Chuck e del suo muoversi nelle direzioni sonore e visive della realtà trasfigurata in un personale viaggio interiore.
La terza e ultima parte non è dunque solo il riavvolgimento esplicativo del senso della vita di Charlie, ma ne diventa il prolungamento e ampliamento delle potenzialità espressive, sentimentali, immaginifiche. E in un misto inestricabile di sensitività e razionalità, di trascendenza e quotidianità, sono proprio i numeri e la danza a intersecare le traiettorie del Charlie bambino e adolescente, con le immagini di un domani che abbiamo già visto in precedenza , seppur sfasato nella percezione sempre più simbolica e astratta di un’allucinazione collettiva: l’insegnate del primo episodio appare infatti come maestro di Chuck nel terzo, mettendo in discussione lo statuto del racconto e dello sguardo. Che l’inizio possa essere in realtà una sorta di sogno/visione/anticipazione del ragazzino nell’elaborazione di un’immagine di sé e della propria precoce morte? Flanagan non spiega e non risolve su un piano di struttura circolare ma, in linea con il suggerimento di un’altra insegnante al suo giovane protagonista sull’esigenza di un verso di Walt Whitman (I contain multitudes dal poema Song of Myself) apre una serie di porte e di affacci sulla coscienza e sulle emozioni. Non ci sono però questa volta la miriade di stanze dell’Overlook Hotel con le loro apparizioni/materializzazioni spaventose, antagoniste, non riconciliate di un adulto Danny Torrance. Il minimalismo di fondo condensa l’universo dentro di sé nello spazio circoscritto della cupola di una casa vittoriana, inizialmente interdetto dai nonni con cui il piccolo Chuck va a vivere dopo la morte dei genitori in un incidente stradale.

C’è qualcosa che sfugge e che al tempo spesso affascina in questa strana, piccola opera che della sospensione e della sottrazione fa il suo di punto di forza, assieme a dei cambi di registro (dal distopico al musical al fantastico) che non alterano invece il tono di fondo. Tutto è pervaso da una malinconia introiettata e mai, effettivamente, triste; al contrario c’è la progressiva emanazione di una luminosità, dopo l’oscura minaccia iniziale, che tocca il suo punto più alto nel personaggio della nonna di Chuck (interpretata dal calore autunnale di Mia Sara); è lei che insegna al nipote a danzare vedendo i vecchi musical hollywoodiani e che dunque lo inizia anche alla capacità, insita nel suo cuore e nella sua mente, di trasformare il lutto e la perdita in colore e pienezza, la staticità del ricordo nel processo della memoria. Se l’impatto è respingente e si fa fatica a capire dove Mike Flanagan ci sta conducendo, c’è nella quieta progressione di questa partitura privata il sentimento di un ritorno a casa scevro da una qualsiasi visione reazionaria o consolatoria. Proprio perché la morte è sempre dietro la barricata di una stanza proibita. Bisogna andare oltre però, e affacciarsi ad una finestra che dà sul paesaggio solare incorniciato tra una moltitudine di meraviglie e di orrori, di aperture e di conclusioni.
In sala dal 18 settembre 2025.
The Life of Chuck – Regia, sceneggiatura e montaggio: Mike Flanagan, basato sul racconto omonimo di Stephen King; fotografia: Eben Bolter; musica: The Newton Brothers; interpreti: Tom Hiddleston, Jacob Tremblay, Benjamin Pajak, Cody Flanagan, Chiwetel Ejiofor, Karen Gillian, Mia Sara, Kate Siegel; produzione: Intrepid Pictures, Red Room Pictures, QWGmire, FilmNation Entertainment; origine: Usa, 2024; durata: 111 minuti; distribuzione: Eagle Pictures.
