The Old Oak di Ken Loach

  • 3,5
3.5

Sono trascorsi tre anni e mezzo da quando vedemmo Sorry We Missed You, l’ultimo film, fino ad oggi, di Ken Loach. Era il gennaio del 2020, il mondo doveva ancora affrontare la pandemia e la guerra. Di anni sembra che ne siano trascorsi molti di più. Rileggendo la recensione che scrivemmo allora e dopo aver visto The Old Oak – presentato a Cannes (e a Locarno in Piazza Grande) e ora in sala – abbiamo pensato, con qualche piccola modifica, di riproporre le righe introduttive di quel testo di tre anni e mezzo fa, assolutamente pertinente (almeno, secondo noi).

Ottantantasettenne ormai, Ken Loach è uno dei pochi registi ancora attivi per i quali si possa tranquillamente utilizzare il concetto di macrotesto: i suoi film sono immediatamente riconoscibili, a voler essere leggermente critici, essi risultano qua e là intercambiabili, ciò vale, soprattutto, per i (molti) film ambientati nel presente: da Riff Raff (1991) a Raining Stones (1993), da Ladybird, Ladybird (1994) a My Name Is Joe (1998), da Bread and Roses (2000) a Paul, Mick e gli altri (2001), da Sweet Sixteen (2002) a In questo mondo libero (2007), da Il mio amico Eric (2009) a Io, Daniel Blake (2016), per citare i più celebri. D’altro canto la grandissima parte dei film di Loach dalla fine degli anni ’90 in avanti sono stati scritti dallo stesso sceneggiatore, ovvero da Paul Laverty, di una ventina d’anni più giovane del regista, per il quale vale, almeno al pari del regista, lo stesso discorso: macrotesto riconoscibile, qua e là interscambiabile.

I film della coppia presentano più o meno tutti la medesima impalcatura ideologica che potremmo definire di matrice rousseauiano-marxiana: gli esseri umani sono buoni, gentili, affettuosi, conflitti individuali dettati da gelosie, rivalità, ambizioni, ma anche soltanto, che so io, da amori tormentati non esistono, a un certo punto, però, gli individui sono costretti a scontrarsi con la società malvagia che non permette loro un completo anche se in fondo innocuo dispiegamento dei propri diritti elementari, concentrati nella gran parte dei casi nella sfera del lavoro, fattosi sempre più volatile, raro e incerto in un sistema capitalistico divenuto ormai completamente privo di regole.
Questo processo di deregulation ha subito nel Regno Unito, soprattutto dall’epoca in cui il primo ministro divenne Margaret Thatcher (stiamo parlando del Primo Ministro di più lunga durata dal 1945 a oggi: dal 1979 al 1990, 11 anni in tutto), una sensibile accelerazione, anche rispetto ad altri paesi europei, un deriva alla quale Loach, seppur con un certo sfasamento temporale (Riff Raff, il primo dei film elencati risale in fondo all’anno successivo alla fine dell’era Thatcher) si è opposto instancabilmente, aggiustando il tiro in base agli eventi per lo più infausti che negli ultimi trent’anni scarsi si sono verificati o accentuati: la fine delle garanzie sindacali, l’abbattimento del sistema sanitario, l’immigrazione, la precarizzazione del lavoro.

Anche in The Old Oak i conflitti sono determinati, in primis, da tensioni o traumi di natura sociale, ma con una novità sostanziale di cui fra un attimo. Siamo nel 2016, nell’anno della crisi siriana e un gruppo di profughi approda nel nord dell’Inghilterra, in un villaggio che con certezza ha conosciuto giorni migliori, perché un tempo c’era una cava/miniera che dava da lavorare e forniva identità. Ma a un certo punto la cava è stata – di nuovo, immaginiamo, negli anni del governo Thatcher – chiusa. Il vano tentativo di opporsi alla comunità era stato l’ultimo momento in cui gli abitanti avevano avvertito e difeso il proprio senso di comunità. Dopodiché la progressiva e inarrestabile decadenza del villaggio ha continuato incessante, al punto che sono venuti meno luoghi di aggregazione (una sala comunale), istituzioni capaci di cementare la collettività (la chiesa, il sindacato), insomma un esempio, in piccolo, di una generale crisi di identità e di rappresentanza da cui l’intero mondo occidentale è affetto che porta con sé il tramonto, probabilmente definitivo, dei grandi partiti popolari.

In questo villaggio che a tratti sembra un po’ un villaggio fantasma l’unico luogo rimasto di almeno parziale aggregazione è il pub di cui al titolo del film. Un pub che, a sua volta, ha vissuto giorni migliori, a cominciare dall’insegna stessa in cui l’ultima lettera, la “k” della parola Oak (Quercia) non vuol proprio saperne di stare dritta. Pochi e di età avanzata gli avventori, pochi dunque i ricavi per il titolare TJ Ballantine (interpretato dallo splendido Dave Turner). Anche qua: un tempo il pub aveva un’ampia sala sul retro, un luogo di incontro e di aggregazione, anche e soprattutto in occasione delle manifestazioni di protesta per la chiusura della cava. Adesso quella stanza è chiusa e polverosa, le belle foto ormai ingiallite delle azioni a suo tempo intraprese sono solo un triste ricordo, la malinconica testimonianza di quanto tempo ormai è trascorso da allora.

L’arrivo dei profughi siriani – troppe vicende analoghe in giro per il mondo ce lo raccontano – costituiscono per i residuali abitanti del paesino un ottimo pretesto per rifarsela con qualcuno, se possibile, messo ancora peggio, per affermare, ribadire un’identità etnica esclusivamente di natura – sia consentito l’ossimoro – aggressivamente difensiva. Ma per una volta Loach e Laverty vanno oltre al mero dato socio-politico, c’è qualcosa di più primordiale, viscerale, antropologico. The Old Oak è appunto una parabola antropologica: ci sono, a partire da esperienze, generazioni e storie comuni, reazioni diversissime alla novità con cui gli abitanti si trovano a diversi confrontare. Se non fosse troppo banale si potrebbe dire ci sono, pur con qualche sfumatura, i buoni e i cattivi. E attorno a questa dialettica si innesta questo buon film, sul rapporto, mai venato di ambiguità fra TJ e Jari, una profuga siriana (Ebla Mari), appassionata di fotografia e sul loro comune e a tratti disperante tentativo di far dialogare le due comunità ruota il testo, con una sceneggiatura che come al solito scorre liscia, qua e là un po’ troppo didascalica, qua e là leggermente patetica, ma nell’insieme convincente, con qualche gradevole tratto d’ironia e con un utopico afflato finale.

Uscendo dal cinema ci chiedevamo: ma quando Ken Loach non ci sarà più, chi farà questo tipo di film?

In sala dal 16 novembre 2023.


The Old Oak; regia: Ken Loach; sceneggiatura: Paul Laverty; fotografia: Robbie Ryan; montaggio: Jonathan Morris; interpreti: Dave Turner (TJ Ballantyne), Ebla Mari (Jari), Debbie Honeywood (Tania); produzione: Studio Canal, Sixteen Films, Why Not Productions, Les Films du Fleuve, BBC Film; origine: Regno Unito, Francia, Belgio, 2023; durata: 113 minuti; distribuzione: Lucky Red. 

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