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Le migliori rivoluzioni sono oggetti artigianali. Non nascono a tavolino, non usano armi prodotte in fabbrica e vivono dell’ideale utopico che spinge la carica iniziale e aspetta il tradimento finale. Nel mezzo c’è la cura della bandiera della propria nazione, orgogliosamente mostrata e accuratamente sistemata. Insomma, el pueblo unido jamàs serà vincido, e la domanda sul fondo rimane sempre la stessa: anche questa rivoluzione incoronerà un dittatore? O forse è altro? Per ora «la rivoluzione sarà femminista e inclusiva, o non ci sarà», e non è poco. Sicuramente, è qualcosa di nuovo.
Las y los minúscoles, scritto e diretto da Khristine Gillard, riprende una sollevazione in corso e non ancora compiuta. Ripercorre l’episodio scatenante, la costruzione di un canale cinese che comporterebbe il trasferimento forzato della popolazione contadina: largo 280 metri, ripetutamente contati durante il lungometraggio, spezzerebbe in due il paese rischiando di renderlo schiavo di una potenza straniera. Il governo, figlio della passata rivoluzione sandinista, lo ha approvato, el pueblo no. Inizia così la rivolta.
È una rivoluzione popolare, datata 19 aprile 2018, nata dal connubio di contadini e studenti, incapace di fabbricare reali armi (mortai artigianali) ma capace di bloccare il paese a forza di barricate e notti in prigione.
Le accuse di prigionia politica sono coperte da false insinuazioni di furti e furtarelli, e laddove non arrivano gli avvocati giungono però i cestini di cibo e le voci delle madri, orgogliose dei figli che nelle prigioni stanno e sull’asfalto delle strade muoiono. Il nemico è uno, o meglio, due: il presidente Daniel Ortega e la vice presidente Rosario Murillo, novelle lady Macbeth e consorte che negano le ragioni della rivolta e additano i ribelli come null’altro che una minoranza, i minuscoli. I minuscoli però sono tanti, sono organizzati, c’è chi studia e chi non studia, però tutti hanno fame, sia di cibo che di libertà, e soprattutto di far sapere che loro ci sono.
Khristine Gillard firma un documentario nel quale cerca la spiegazione piuttosto che l’azione. Non vuole strappi o salti, preferisce la ricerca delle origini e la contestualizzazione di un movimento. La mdp reagisce di conseguenza e indaga nei dettagli le parole delle persone che hanno dato inizio a tutto e tutt’ora lo muovono: queste spiegano le loro motivazioni, dipingono un quadro della situazione del paese e la mdp ne riprende parti di viso o mani sudate, in agitazione. Non c’è spazio per figure intere e quindi per eroi in questa rivoluzione, si parla di contadini tra spacchi di cartelloni pubblicitari e ragazzi con fionda in una mano e iphone nell’altra. La stessa ‘protagonista’, Doña Chica (Francesca Ramirez) mai è ripresa a figura intera, al massimo ci si appoggia alla sua spalla a riprenderne la voce inesperta al microfono e gli abbracci delle manifestati compagne.
Il Nicaragua reclama un suo spazio. È infatti questa una rivoluzione umana per proteggere ciò che umano non è, è quindi consequenziale che nei titoli di coda il vulcano Concepción e Punta Gorda siano inseriti in ordine alfabetico tra i nomi dei collettivi studenteschi e altro. Alla fine il Nicaragua selvaggio diviene protagonista anch’esso: l’immagine iniziale trova un bambino perso tra i banani, l’immagine finale un lungo fiume tra le cui fronde compare un vulcano e una nuvola a incoronarlo. È una rivolta differente da quelle passate, è una rivolta con altri valori.
Una rivoluzione, insomma, consapevole che è il racconto della rivoluzione a essere tanto importante quanto la direzione intrapresa dalla stessa. In un mondo nel quale tutto viaggia a velocità prossime all’invisibile può capitare che sia proprio la rapidità a penalizzare le reali ragioni di uno scacco politico e sociale. «L’informazione è potere» viene detto da due rivoluzionari, mentre le loro mani spiluccano fagioli buoni e meno buoni, creando una mappa cibaria del Nicaragua stesso. È importante allora che la pellicola si prenda il tempo del racconto intervallando allo stesso i video al computer della programmata diga (rigorosamente con ideogrammi cinesi), canzoni rap degli studenti e riprese degli scontri nei quali il suono dei proiettili supera le barricate. D’altra parte di queste c’è una generazione pronta al sacrificio, prigione o esilio o morte, soprattutto unita nel festeggiare i piccoli traguardi, la liberazione dei prigionieri politici.
Las y los minúscoles è un documentario articolato, bravo a prendersi il suo tempo per adeguarsi a quello della Storia e dipingerlo con una poetica dell’immagine che tocca il naturale e il sociale. Interessante il confronto tra le due rivoluzioni, quella passata sandinista che ha portato al potere l’attuale presidente, e quella attuale, inclusiva anche nei confronti del movimento LGBT e paurosa che la storia, alla fine possa ripetersi. Certamente, raccontarla prendendosi uno spazio adeguato può aiutare.
Las y los minúscoles – regia: Khristine Gillard; sceneggiatura: Khristine Gillard; operatore: Johan Legraie, Leonor Zúniga Gutiérrez; musica: Thomas Bouniort, Khristine Gillard; montaggio: Khristine Gillard, Julien Contreau; montaggio suono: Josefina Rodriguez; sound mixing: Emmanuel De Boissieu; interpreti: Elba Rivera Urbina, Francisca Ramirez aka Doña Chica, Gaby Somarriba Gomez, Orlando Antonio Aldana aka Chele, Andrés Casanova, Elyla (Fredman Barahona), Gioconda Belli (parole di); produzione: Matière Première, Chacapa Films; origine: Belgio, 2021; durata: 150’.
