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Voto
Nostalgia di un’Italia al passaggio tra inverno e primavera. Non di stagioni dell’anno si parla però, bensì quelle del secolo, e quindi del Bel Paese del pre e dopoguerra nelle parole di coloro che allora c’erano. Ragnatele nelle pieghe delle mani, carezze tra bastoni, sedie di plastiche di fronte a tizzoni ardenti. Il tempo rimasto di Daniele Gaglianone interroga proprio il tempo, pone domande a giorni andati e recuperati per mezzo di mezze memorie, tra foto in bianco e nero e passi in una campagna ora arsa dal sole ora coperta di neve. Gli anziani hanno un metronomo loro, battono il presente con il levare del passato, e la vitalità dei ricordi rivaleggia con gli attimi appena trascorsi. L’oggi vince sempre, ma quelle che vince sono battaglie, la vittoria finale appartiene di diritto a ciò che è andato.
«Io le voglio vedere le cose, anche se sono male, io voglio sapere tutto» dice una signora nel ricordare il figlio nato morto, rimasto per ore con mezza testa fuori e mezza dentro, infine mai visto. Ora non sa neppure dove sia seppellito, manda la nipote a cercarne la ‘cassettina’ nella quale è risposto, da qualche parte nel cimitero. «Mi avevano mandato a scuola. Poi chiesero i soldi per i libri e mio padre mi ritirò. Da quel giorno ho smesso di disegnare» ricorda un uomo, vicino l’astuccio con i pastelli e tra le mani argilla fresca che sta diventando un fantoccio con tanto di cappello e bottoni. Un altro, guardando il mare, riflette: «Non ho mai imparato a nuotare da riva verso il largo, sempre nuotavo dalla barca a riva. Nuotavo per salvarmi, veramente» e la signora della scena successiva scruta dietro la mdp ed è come se intravedesse: «la fiamma blu e gialla che uscì dal fucile del fascista che sparò a mio padre. Lo vedo ancora, giù, a trenta metri, sembrava che stesse sparando a me». Ricordi tristi, sguardi pieni che fissano spazi vuoti negli angoli delle stanze accanto a tavole con tovaglie inamidate e pavimenti lustri a riflettere le pantofole. Però c’è anche dell’altro, orgoglio e bellezza.
Un uomo si alza un piedi, ondeggia avanti e indietro, lui trova la stabilità per parlare e la mdp la propria nel riuscire a inquadrarlo per intero: «io sono andato da lei e gl’ho detto: se ti piaccio me lo devi dire adesso, se non ti piaccio me lo devi dire ancora adesso». Una donna studia la propria foto da giovane: «che bella questa ragazza, mi piaccio. Allora non ci credevo, ora sì» e un’altra incomincia a intonare una canzone d’inspirazione comunista concludendo con un proprio parere personale, mezzo sospirato: «Ha trionfato? Così cosà».
Daniele Gaglianone riporta un collage di interviste, le voci a passarsi il testimone in un viaggio che attraversa l’Italia in lungo e in largo, tra paesaggi diversi e accenti spiccati che riportano memorie di un paese contadino, operaio e povero. La povertà è il filo comune di una generazione, ognuno ha dovuto sacrificare qualcosa per farne fronte, chi lo studio, chi la propria famiglia; c’è sofferenza, estrema, ma di questa il rimpianto viene strozzato perché anch’esso è avvizzito. Si è tinto del bronzo autunnale, quel colore che rende le foglie verdi più preziose, nel togliervi tuttavia linfa vitale. Per quanto si abbia sofferto, per quanto si abbia perso, la perdita è ora ricordo e la doratura della memoria è quella delle cornici antiche restaurate: è perché ci sono i fori dei tarli, è perché quei fori sono colmati d’oro, è per entrambi che la cornice acquisisce quel dato (maggiorato) valore. Ciò che contiene la cornice, importa fino a un certo punto. Spesso è uno specchio e dentro si vede se stessi, giovani, e (purtroppo?) non si è soli.
Rimane però una rivalsa, quella di chi dal passato stesso trae forza, come la signora Maria. Insegnante di pianoforte da una vita si arrende al personale giudizio severo di non essere più in grado di suonare, medesimo giudizio, medesima severità, che riversa contro il malcapitato alunno di turno. Richiamato in fretta e furia («Ma sono tornato dalle vacanze ieri») per farsi riprendere durante una presupposta ‘normale’ lezione con l’anziana, diventa capro espiatorio. «Maria, non lo deve richiamare così. Il povero Ema è qui per farmi un piacere. Dovevamo solo far vedere che lei è ancora in grado di insegnare nonostante l’età» riprova a spiegare il regista. Maria capisce e pazienta per il tempo di un’altra suonata, pure si complimenta: «Ecco, questa la sa», ma poi non si può trattenere: «Quella prima no, però, quella proprio no». Trattasi sempre di una voce del passato, ma lo mangia il presente, lo divora.
Il tempo rimasto – Regia: Daniele Gaglianone; soggetto: Stefano Collizzolli, Daniele Gaglianone; montaggio: Enrico Giovannone; fotografia e operatori: Matteo Calore, Mauro Nigro, Andrea Parena, Paolo Rapalino; musica: Sergio Marchesini; produttore: Andrea Segre; produzione: ZaLab Film con Rai Cinema e Luce Cinecittà; origine: Italia, 2021; durata: 89’.

