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Voto
Il downloading del mondo di Tron, con il quale in un avveniristico e anticipatorio 1982 una Disney più adulta e cupa aveva lanciato la riflessione sul rapporto tra realtà e virtualità, esplode definitivamente in quest’ultimo Tron: Ares. Arrivato ormai a una trilogia scandita da delle lunghe pause (addirittura 28 anni tra il primo film e Tron: Legacy del 2010) , il franchise sembra avere la necessità di aspettare gli sviluppi della tecnologia e degli effetti speciali per poter trovare una compiuta ed efficace rappresentazione della sua estetica. La chiave d’accesso e di risoluzione rimane sempre la figura di Kevin Flynn, il geniale e anarchico creatore di videogiochi che, partendo dal riscatto per il proprio lavoro rubato dal dispotico Ed Dillinger, direttore generale della Encom (la compagnia informatica intorno alle cui soriti ruotano gli avvenimenti di tutta la saga), arriva a creare un permanente corto circuito. Il punto è sempre la smaterializzazione fisica di un soggetto umano trasformato nel proprio alter ego digitale e trasportato dentro il grid di un videogame, ovvero una piattaforma collegata in rete che riproduce in forme e figure un universo di codici e numeri, composto secondo un basico design di linee, luci e funzioni essenziali ( distruggere l’avversario utilizzando un disco che è al tempo stesso arma e contenitore del codice identitario di ogni giocatore). Stavolta il processo, seguendo anche le trasformazioni del tempo in cui viviamo, è però invertito: sono infatti i personaggi del gioco, i programmi, a lasciare il contenitore elettronico e a trasferirsi nel mondo reale, senza però l’apparente scopo di conquistarlo o distruggerlo. Dal punto di vista del racconto, al centro vi è sempre una faida di famiglie, CEO aziendali, interessi economici e deliranti desideri di potere. Flynn, anch’egli toccato da un messianico ego nel quale immagina i due mondi, quello della rete e quella della realtà, interagire senza soluzione di continuità l’uno con l’altro, è ormai defunto in quanto essere umano ma continua a vivere come saggio custode del futuro che sarà nel grid da lui concepito e realizzato.

I disputanti per il codice rivoluzionario che ha elaborato, e che permetterebbe la coesistenza permanente di entità create con l’intelligenza artificiale e persone in carne e ossa fuori dal programma , si dividono come non mai nei buoni e nei cattivi: Eve Kim (Greta Lee), programmatrice e nuova amministratrice delegata della Encom che vorrebbe realizzare l’utopica visione di Flynn, e Julian Dillinger (Evan Peters), figlio degenere e megalomane di Ed, che in quel codice vede solo la possibilità di conquista e di controllo del mondo espanso. In mezzo a queste polarità, spicca la figura di Ares, programma digitale creato da Dillinger jr. come Master Control del suo grid, che già dal nome scelto per lui porta in sé i protomi di un combattente, la potenza e la decisione di un’arma da guerra. Ed è quello che accade proprio nella “personalità” di Ares (Jared Leto) a sconvolgere i piani e le direzioni; come un replicante di Blade Runner, convertito però al lato buono della forza, quest’uomo codificato scopre una coscienza, dei sentimenti, un’etica, e decide di ribellarsi agli ordini, anzi alle direttive folli, di Dillinger per fare la cosa giusta, con un’evoluzione che da uno schematico punto di vista psicologico non fa una piega. Ares infatti vuole inizialmente impossessarsi del codice di Flynn per sé, per divenire, come un novello Pinocchio rivisto dal genio di Kubrick e dalla fantasia di Spielberg in A.I.: Intelligenza Artificiale, un “Real boy”. L’incontro con Eve e i suoi amici lo apre poi, nel corso degli eventi, al sentimento dell’altruismo e dell’amore, sicuramente non contemplato nelle sue direttive originali.
L’aspetto più interessante è come questa trama, di per sé piuttosto scontata e già incontrata nel cinema di fantascienza che ibrida fattore umano ed extra o post umano, è il modo in cui il regista Joachim Rønning ha messo in comunicazione l’assetto visivo del microcosmo di Tron con quello della metropoli terrestre. Durante la piuttosto riuscita sequenza della corsa delle moto di luce, che avviene questa volta per le strade e le vie di una città vera e non della sua omologa raffigurazione computerizzata, lo slittamento percettivo provocato dal vedere gli effetti di suono e di immagine di un videogioco, peraltro basato su un elementare grafica bidimensionale, applicati sulla mappatura di un luogo dai connotati reali, trasmette una suggestione spazio-temporale piuttosto esaltante. Passato, presente e futuro si fondono nella sintesi di una piattaforma ibrida materia/digitale che riproduce le durate e le possibilità di una partita potenzialmente infinita (ogni sessione di gioco dura trenta minuti) ed è simultaneamente esposta agli imprevisti e alle digressioni di un pianeta non generato e non incasellabile dalla digitazione di una formula numerica.

Alternando il controcampo della soggettiva di Ares e degli altri programmi è ancora più evidente il bug che ne mette in crisi il modello e ne produce il malfunzionamento, quantomeno secondo il diktat che li vorrebbe fedeli al proprio creatore. Ma forse, più che la morale ovvia, e comunque condivisibile, di non sottovalutare le derive dell’AI in procinto di strabordare dai confini dei nostri schermi, tastiere, mouse e joypad per prendere possesso della realtà concreta e non solo riprodurne il simulacro astratto, quello che convince maggiormente in Tron: Ares è proprio la confezione smagliante eppure raffreddata, divertente però concettuale, a cominciare dalla martellante e strepitosa colonna sonora post-post rock dei Nine Inch Nails. Gli stessi interpreti, pur bravi attori che hanno offerto performance vibranti e sottili (Jared Leto, Greta Lee, Evan Peters), si assestano su una cifra piuttosto monocorde da cliché di genere, che potrebbe essere però anche una risposta alla riproduzione artefatta e overacting di attori e attrici costruiti sempre dall’intelligenza artificiale (secondo una preoccupante modalità massicciamente diffusa sui social network ). Al contrario, dunque, il limite dell’espressività di un volto in carne e ossa ancora e concretizza scene d’azione che vogliono proprio invertire il flusso. Significativa la lunga sequenza in cui Eve, per dare il tempo alla sua equipe di lavoro di trovare una soluzione agli attacchi dell’esercito digitale di Dillinger, crea un elemento di distrazione nei confronti nella determinata e terribile Athena (prima partener e poi nemesi di Ares); e lo fa semplicemente correndo con il proprio corpo, il proprio affanno, la fatica, le esitazioni, le ferite. È lei a portare l’implacabile e ineluttabile funzionalità del programma nel terreno friabile e distruttibile della materia, affidandosi alle capacità dell’ingegno e allo spiazzamento delle sensazioni. Mentre sarà proprio Ares, una volta divenuto “umano”, a spezzare la ripetizione di tante vite a tempo contra la differenza di una sola vita scadenza. Fuori da qualsiasi dimensione, resta poi il dubbio sull’apparizione di Jeff Bridges che, dopo essere apparso ringiovanito agli anni ’80 nel precedente Tron Legacy, ritorna nelle sembianze sempre più profetiche di Flynn. Un volto che, in questi anni, potrebbe essere diventato il riflesso di una manipolazione algoritmica o semplicemente l’espressione autentica della sua età, il segno fantasmatico e tangibile di come siamo e di come eravamo.
In sala dal 9 ottobre 2025.
Tron: Ares – Regia: Joachim Rønning; sceneggiatura: Jesse Wiguton dai personaggi creati da Steven Lisberger e Bonnie MacBird; fotografia: Jeff Cronenweth; montaggio: Tyler Nelson; musica: Nine Inch Nails; interpreti: Jared Leto, Greta Lee, Evan Peters, Jodie Turner-Smith, Jeff Bridges, Gillian Anderson; produzione: Walt Disney Pictures, TSG Entertainment; origine: USA, 2025; durata: 119 minuti; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures.
