Troppo azzurro di Filippo Barbagallo

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Il dato è singolare: nel volgere di breve escono in sala due titoli diversissimi, che raccontano il disagio esistenziale della cosiddetta “Generazione Z”, ovvero i venti-trentenni dei nostri giorni. Uno è Non credo in niente , l’altro è Troppo azzurro, di cui vi parliamo di seguito.

Le analogie non finiscono qui: identica è l’ambientazione romana (e, come troppo spesso capita, vagamente romano-centrica, ma il dato generale ovviamente esula da questo novero) e identico lo status di opera prima. Troppo azzurro è infatti l’esordio dietro la macchina da presa di Filippo Barbagallo, che si diploma in sceneggiatura al Centro sperimentale di cinematografia, dopo due significative esperienze da assistente alla regia, per Tito e gli alieni (2017) di Paola Randi e Ride (2018) di Valerio Mastandrea (qui presente in un divertito cameo). Barbagallo non dirige soltanto: è anche sceneggiatore e interprete del film, autore assoluto dell’opera insomma, à la manière dei cosiddetti “nuovi comici” che debuttarono tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, come Nanni Moretti e Massimo Troisi, di cui Barbagallo ricalca scopertamente il modello di riferimento; nel deambulante spaesamento identitario e soprattutto nell’incorreggibile problematicità che permea qualunque relazione sentimentale. Una problematicità esibita e parossistica, che si declina nelle forme del disagio nevrotico e dell’autosabotaggio narcisistico: il suo Dario non riesce ad avere rapporti amorosi men che effimeri perché vittima di un’apparentemente inspiegabile coazione a ripetere di natura autolesionistica.

Semmai, rispetto a quegli esempi magnifici, manca qui l’ironia che è piuttosto rattrappita come le vite ontologicamente precarie di questi giovani del terzo millennio. Inoltre, rispetto ai modelli di MorettiTroisi, il protagonista di Troppo azzurro è decisamente più riconciliato con sé stesso e molto meno inadeguato alla vita. La sua insicurezza sembra a tratti quasi una posa borghese solipsistica, in definitiva autocompiaciuta. Vive in una sorta di isolamento atarassico, ma non come esito di un reale travaglio psicologico ed esistenziale ma come rivendicazione di un’indipendenza sentimentale che pare figlia di un coraggio di vivere che – come diceva quello – ancora non c’è. Tanto che, socchiudendo gli occhi, ci si figura davvero che possa da un momento all’altro spuntare fuori il Michele Apicella di Ecce Bombo (Nanni Moretti all’epoca dei fatti aveva la stessa età di Filippo Barbagallo) a rivolgere a torto o a ragione al Dario di questo film le stesse lapidarie parole con cui liquidava il Mirko di Fabio Traversa: “Io sono triste, tristissimo; però sono teatrale, vitale. Tu sei triste squallido”.

Perché se si raffrontano le due pellicole – specchi insieme fedeli e deformati delle rispettive epoche – ciò che balza agli occhi è proprio la fine di quella vitalità che rendeva quei protagonisti eroici anche quando erano comici, divertenti pure nei loro drammi. Qui no, si assiste a una serie di false partenze sentimentali e a un nomadismo esistenziale rassegnato che non potrebbe essere riscattato da alcuna prospettiva futura, per quanto relegata nell’aleatorietà della nevrosi individuale o collettiva. Probabilmente perché siamo ancora dentro a quella che Gérard Schmit e Miguel Benasayag ebbero a definire L’epoca delle passioni tristi, saggio indispensabile in cui i due studiosi si interrogano su “quali siano le cause delle paure che ci portano a rinchiuderci in noi stessi”, e si rispondono così: “I problemi dei più giovani sono il segno visibile della crisi della cultura occidentale fondata sulla promessa del futuro come redenzione laica. Si continua a educarli come se questa crisi non ci fosse, ma la fede nel progresso è sostituita dal futuro cupo, dalla brutalità che identifica la libertà con il dominio di sé, del proprio ambiente, degli altri.”

Ecco questo debutto esile ma non banale di Barbagallo, forse senza volerlo davvero fino in fondo, evoca temi siffatti sottesi da qualche decade alle riflessioni sulla nostra società. Lo fa sviluppando una trama piana, come sono quelle del cinema di Gianni Di Gregorio (che cura qui la supervisione artistica), e con lo stesso minimalismo della sua “poetica dell’ordinario”. Con l’intenzione “di raccontare delle sensazioni speciali che durano un attimo – come scrive nelle note di regia Barbagallo, che aggiunge: “Volevo che fosse come una birretta. Leggera, la butti giù in un attimo e ti viene da dire: “Oh, alla fine oggi non si sta mica male”.

Passando alla trama, Troppo azzurro racconta di un ménage a trois lieve e pudico quasi fossimo in un film di Éric Rohmer in sedicesimo (solo come evocazione tematica, però; il mood è forse più simile a quello della commedia teen “made in Usa” dei vari Judd Apatow, Seth Rogen e Greg Mottola; oppure al balbettio sentimentale retaggio del corpus filmico woodyalleniano). Anche qui, come in certo cinema del regista de La collezionista, si assiste infatti a dinamiche interpersonali (e intersessuali) nelle quali i maschi si muovono in branchi mono-gender perché prigionieri della propria irresolutezza, mentre le donne denotano una superiore coscienza di sé unita ad una intraprendenza che ormai, per fortuna, fa sempre più rima con indipendenza.

Ma forse, in definitiva, il vero motivo ispiratore di questo piccolo grande film è la letteratura di Vladimir Nabokov, citata platealmente in campo e a favore di camera: “Ho capito che l’unica felicità a questo mondo sta nell’osservare, spiare, sorvegliare, esaminare se stessi e gli altri; nel non essere che un grande occhio fisso, un po’ vitreo, leggermente iniettato di sangue. La felicità è questa, lo giuro.”

In sala dal 9 maggio 2024


CREDITS & CAST

Troppo azzurro Regia: Filippo Barbagallo; soggetto e sceneggiatura: Filippo Barbagallo;  fotografia: Lorenzo Levrini; montaggio: Irene Vecchio; musica: Pop X; interpreti: Filippo Barbagallo, Alice Benvenuti, Martina Gatti, Brando Pacitto, Valerio Mastandrea, Valeria Milillo; produzione: Elsinore Film, Wildside, Vision distribution in collaborazione con Sky; origine: Italia, 2023; durata: 88 minuti; distribuzione: Vision Distribution.

 

 

 

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