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Voto
Selezionato per lo sfortunato Festival di Cannes del 2020, True Mothers, undicesimo lungometraggio della cinquantatreenne regista giapponese Naomi Kawase, è un film dedicato a un argomento di altissimo spessore morale, ovvero l’adozione di un bambino e il rapporto fra i genitori adottivi e la madre biologica e possiamo dire fin da subito che la regista – il film è tratto da un romanzo di qualche anno fa – riesce ad affrontare questo argomento con un atteggiamento, del resto tipico della cultura giapponese, improntato a discrezione, delicatezza, rispetto, grazia.
I personaggi, pur nel conflitto che magari impiega un po’ troppo tempo ad emergere, rivelano un estremo autocontrollo. La regia e la fotografia, affidate quasi sempre alla camera a mano, restano attaccate ai volti, cercando di coglierne le minime espressioni; la costruzione del plot è articolata e raffinata, grazie al montaggio parallelo, alla rinarrazione multiprospettica della stessa sequenza oltreché a un uso piuttosto frequente di dettagliate analessi che allungano significativamente l’arco temporale della vicenda raccontata. Gli attori e le attrici sono di qualità.
Eppure c’è qualcosa che non torna in questo film che arriva in Italia quasi due anni dopo, per merito della Kitchen Film. Sono tre ordini di ragioni che non convincono. Cominciamo dalla regia. Se non si può non apprezzare la regia, là dove si occupa dei personaggi e delle loro interazioni, è francamente poco convincente, anzi diciamolo pure ridondante e stucchevole tutto lo spazio che Kawase decide di dedicare al paesaggio. Bisognerebbe rivedersi tutto il film, ma – a spanne – se escludessimo le sequenze dedicate al paesaggio (sole, alberi, mare, albe, tramonti, uccelli in volo etc.), il film durerebbe almeno una ventina di minuti in meno, quindi la durata (adesso 139 minuti) sarebbe decisamente più congrua. L’occorrenza così marcata di malinconiche ed estetizzanti scene di paesaggio, spesso accompagnate da una musica extradiegetica decisamente eccessiva e lagnosa, può essere giustificata solo in presenza di quello che potrebbe essere considerata una sistematica rete simbolica. Non mi pare che sia così.
In secondo luogo non convincono alcuni snodi della sceneggiatura. Che la madre biologica venga costretta a cedere il bambino perché neanche lontanamente supportata dai genitori, i quali ritengono uno scandalo che si sia ritrovata a soli 14 anni incinta e che anzi vadano dicendo in giro, al fine di giustificare l’assenza da scuola, che la ragazza si è beccata una polmonite, ci può stare. Ma che, addirittura, Hikari, rientri in una categoria ritengo più unica che rara, ossia di una ragazza che resta incinta senza ancor avuto il menarca, che quindi non è insospettita dall’assenza di mestruazioni e capisce dunque di essere incinta quando non è più legittimata ad abortire, qualora lo desiderasse, beh, qua lo spettatore fa un po’ fatica. Anche altri due momenti della sceneggiatura non mi hanno convinto: quando Hikari finisce nelle mani degli strozzini a Tokyo e quando la madre adottiva non la riconosce perché ha un aspetto e soprattutto i capelli diversi. Va bene, forse non la riconosce perché non la vuole riconoscere, ma la cosa sembra un po’, è il caso di dirlo, tirata per i capelli. Il tutto al netto della sparizione completa del ragazzo che l’ha messa incinta, in fondo si erano giurati amore eterno, e il ragazzo non sembrava affatto un superficialotto.
In ultimo, ribaditi tutti i meriti di cui sopra (discrezione, delicatezza, rispetto, grazia), nuoce al film la mancanza di leggerezza, perché risulta gravato di una malinconia, di una grevità che si ripercuote anche sul destino dei personaggi minori: la malattia della titolare dell’agenzia, il destino della collega del servizio di distribuzione stampa, il breve racconto sul suicidio della ragazza del capo e, in generale, l’atmosfera che si respira nella casa-famiglia. Ogni tanto, non lo nascondiamo, viene da pensare che il film in fondo descrive un mondo tutto sommato iper-garantito, a cui qua e là verrebbe spontaneo sottrarre empatia.
In sala dal 13 gennaio
Cast & Credits
Asa ka guru. Regia: Naomi Kawase; sceneggiatura: Naomi Kawase, Izumi Takahashi; fotografia: Naomi Kawase, Naoki Sakakihara, Yuta Sukinaga; interpreti: Arata Iura, Hiromi Nagasaku, Taketo Tanaka, Aju Makita, Reo Sato; produzione: Kazumo, Kino Films, Kinoshita Group, Kumie; origine: Giappone, Francia 2020; durata: 139′; distribuzione: Kitchen Film.
