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Voto
“Come si fa a costruire una memoria, se non ci sono immagini che corrispondono a quella memoria?”. Questa riflessione in forma interrogativa posta da un cineasta come Chris Marker che sul valore testimoniale, relazionale, elaborativo e creativo dell’atto del vedere transitato nella pratica del filmare potrebbe essere la chiave di lettura del fluviale A Fidai Film del regista palestinese Kamal Aljafari, che sposta in avanti il campo d’indagine, ponendo una questione altrettanto fondamentale rispetto all’esistenza e alla sopravvivenza degli archivi: l’appendice all’appello di Marker potrebbe infatti essere, “Una volta che le immagini saranno state filmate e raccolte, chi si occuperà di conservarle, in quale luogo e con quale modalità?”.
Perché un archivio può conservare le storie, e avere una propria storia, un senso, una posizione talvolta scomoda perché spesso contraddice la versione comune e la storia ufficiale, nello specifico quando si parla di guerre e si entra nel campo minato dei distinguo tra vittime e carnefici. La carta d’identità dell’archivio in questione riporta il nome del Palestine Research Center voluto e creato dall’OLP ( l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) nel 1965, con l’interno di conservare una memoria sia audiovisiva che cartacea della storia del popolo palestinese in tutte le sue prospettive e manifestazioni: i riti collettivi di una comunità, spesso legati ad un costante errare e migrare alla ricerca di un proprio posto in quel mondo aperto sulla carta, ma ridotto al confine/confinamento di un perenne stato di minaccia, assedio, occupazione; ma anche i volti, le voci, i corpi in primi piani e in campi lunghi delle persone singole, colte nello scoramento della precarietà, con sussulti e squarci perfino di romanticismo e di una non consolatoria o retorica poesia: la dimensione urbana, più direttamente colpita dalle conseguenze dei rastrellamenti, dei bombardamenti e degli attentati, e quella rurale, contadina, dell’entroterra, fino a spingersi nella zona franca del desertico e silenzioso paesaggio che restituisce la eco di una desolazione, di uno smantellamento ancora in atto. Aljiafari non è potuto recarsi, però, nella sede deputata alla stazionamento di questo materiale cosi prezioso e ricco da richiedere un’ attenta manutenzione, la cura che dovrebbe rivolgersi a qualsiasi organismo vitale.
Nel 1982, durante lo svolgimento della guerra in Libano, quando l’esercitò israeliano entrò dentro Beirut, la sede dell’archivio situata in un palazzo di sei piani nel quartiere di Hamra, venne prima sottoposta ad una serie di attentati bombaroli, accompagnati da un saccheggio e un’appropriazione indebita, sempre da parte dell’azione messa coscientemente in atto dal governo di Israele all’epoca dei fatti, di tutti i documenti raccolti in ogni formato. Si potrebbe dire, in confronto ai terrificanti avvenimenti in corso ormai quotidianamente davanti ai nostri occhi, che si è passati dalla distruzione sistematica delle immagini e degli immaginari impressionati su decomponibili e combustibili supporti analogici, allo sterminio sistematico dei corpi, senza nessuna distinzione di genere e di età, spegnendo non solo la visione occorsa di quello che è accaduto, ma anche la restituzione in prospettiva di quello che sarà, anzi, allo stato attuale delle cose, di ciò che rimarrà dopo questo progetto di devastazione totale. Il recupero e la messa in opera di una simile quantità di filmati sottratti alle maglie degli organi multimediali di propaganda israeliana, intenta a cancellare in primis l’impronta visiva dei palestinesi, affondata nel calco di una propria storia di usi, costumi, esodi, tragedie e dignità, è dunque lo scacco a un genocidio che ha tentato di essere eseguito su un piano culturale e simbolico, prima che come implacabile carneficina.

Da qui la necessità di segnare il materiale alla stessa stregua della materia ridotta a macerie e della carne martoriata a sangue. Aljiafari verga così di rosso alcune figure umane e alcuni paesaggi, intervenendo graficamente sulle pellicole sgranate, graffiate, catalogate per minutaggio e scandite dal suono di un ciak, trasmettendo la percezione del formato videoregistrato nella sensazione di un involucro di pelle umana. E anche le parole che compaiono sopra alcune immagini, soprattutto quelle che mostrano la guerriglia e le conseguenze dell’ esplosione dell’edificio di sei piani che ospitava l’ archivio, sono cancellate in rosso; un gesto che potrebbe appartenere alla matita di un severo maestro eterodiretto e indottrinato dal potere che da e toglie la parola e le parole.
E, su un piano ancora una volta simbolico e testuale, si afferma che quel tipo di orrore definitivo lo si è forzatamente tentato di convertire in un formato ulteriore, che non può essere ne vedibile ne intelligibile. Non una sostanza informe che può essere trasformata, ma una pietra miliare scolpita in tutta la sua potenza di documento di denuncia, di j’accuse senza appello e contraddizioni. Uno sguardo scomodo che riacquista frontalità e centralità, dopo il terroristico tentativo di oscuramento e di rimozione. Talmente liberato da avere la capacità di includere, e di invertire, persino il controcampo dei suoi aguzzini e persecutori. È lo sguardo della soldatessa kapò che impugna un fucile e viene filmato fin dentro le pupille oculari, ripreso anche nello spot di presentazione dei film in Concorso di Unarchive. L’avvicinarsi, fino a cadere dentro quei buchi (bianchi e) neri di una pulsione dominante che cela anch’essa paure e fragilità, e fa smarrire l’ ultimo senso, il più basico, quello dell’orientamento su chi sta guardando (controllando e dominando) chi. Anche se la differenza tra assassini e vittime, tra aguzzini e martiri, resta netta e riconoscibile.
Parafrasando il titolo, e chiudendo il cerchio, la fede/fedeltà/fiducia nelle immagini va riconquistata fotogramma dopo fotogramma, e consegnata al database espanso di un’umanità che sa (ri) pensare e ricordare.
A Fidai Film – Regia: Kamal Aljiafari; montaggio: Kamal Aljiafari, Yanning Willman; musiche: Simon Fisher-Turner; produzione: Kamal Aljiafari Productions; origine: Brasile/Francia/ Germania/ Palestina/ Qatar, 2024; durata: 78 minuti.
