UnArchive-Found Footage Fest (3° Edizione, 27 maggio-1 giugno): A year in the Life of a Country di Tomasz Wolski (Concorso Internazionale)

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Con A Year in the Life of a Country le immagini d’archivio acquistano immediatamente la presa e la forza di una presa diretta, ancor prima dell’inedito documento storico: si è infatti lanciati tra le strade in bianco e nero della Polonia dei primi anni ’80, precisamente di quell’arco di tempo posteriore al 13 dicembre 1981, quando il governo comunista di  Wojciech Jaruzelski impose la legge marziale per sedare le manifestazione, le rivolte, gli scioperi organizzati dal movimento Solidarność guidato dal Lec Walensa. La percezione sensoriale che il regista Tomas Wolski riesce a comunicare andando a strutturare il corpo di questo materiale cosi vivo e pulsante è quella di un susseguirsi  di avvenimenti che potrebbe stare per succedere anche ora, nel momento in cui ci affacciamo alla finestra o spalanchiamo la porta del nostro appartamento: è quasi la stessa apprensione ed emozione che accompagnava lo sguardo in soggettiva dei tre giovani amanti regolari nell’uscire fuori dall’appartamento parigino, nel quale avevano celebrato i rituali di passaggio dell’Eros e dell’immaginario, per oltrepassare la soglia di un portone e tuffarsi nel flusso del Maggio francese del ’68 in The Dreamers di Bernardo Bertolucci. In questo caso il filtro di una dialettica  tra realtà e messa in scena si realizza nel montaggio compatto, serrato, eppure ricco di digressioni visive e di momenti sospesi e interrotti che mettono insieme la dimensione della cronaca di una rivoluzione annunciata, innervata da un tono carico di emozione e di partecipazione, e quella di una riflessione sul meccanismo della rappresentazione. In alternanza con i volti fieramente e intensamente stagliati tra la folla di donne e uomini con i propri figli in spalla, intenti a reclamare il cibo per sfamarsi contro uno Stato accentratore e dispensatore arbitrario di ogni risorsa, scorre una presentazione dei blocchi informativi:  la versione dei bollettini e dei cinegiornali ufficiali, (dis) incarnata dal neutrale compagno di partito, e il controcampo del report che tenta di darne il giornalista inglese, anch’egli però colto nel suo backstage di aggiustamenti, tra la scelta delle parole e quella dell’inquadratura in cui mostrarsi prima di raccontare.

Il generale Wojciech Jaruzelski

Una cornice straniante che aumenta l’impatto degli spigolosi e fieri lineamenti somatici e delle espressioni di lotta e rivendicazione del popolo  polacco, mostrato nella duplice accezione di comunità resistente e di individui che cercano una propria collocazione in uno spazio e in un tempo occupati dal controllo e dalla repressione del regime, in maniera figuratamente panottica e sostanzialmente violenta. Si tratta di una ferita, uno spacco, una rottura di gambe e di teste alla quale la scelta messa in atto da Wolski, che nell’addentrarsi dentro un repertorio tanto denso non poteva che toccarne i nodi nevralgici occupandosi direttamente anche del montaggio, arriva in un crescendo che attraversa per prime le fasi della retorica propagandistica; la costruzione di una narrazione, termine utilizzato nel senso più strumentale e manipolatorio che si possa intendere (nella brutale ed esplicita imposizione di una lettura ideologica e precostituita  della realtà, come potremmo dire oggi a proposito delle più subdole modalità algoritmate dai Big Data delle piattaforme audiovisive), che riporta una dicotomia funzionale al mantenimento del potere costituito; da una parte, infatti, venivano fatte circolare inchieste istantanee nei quali i cittadini degli spazi urbani e delle campagne dichiaravano non solo l’efficacia e la necessità della legge marziale per riportare ordine nelle strade e nelle piazze, ma anche nel ristabilire una maggiore disponibilità di risorse alimentari, il ritorno a un benessere nel segno della sospensione di qualsiasi diritto civile.  In contrapposizione il tentativo di far passare gli scioperanti e i manifestanti, identificati nel gruppo sempre più espanso e attivo del gruppo Solidarność, come i sabotatori di un sistema costretto ad utilizzare le maniere forti per sedare un dissenso espulso in quanto minaccia e caos e non, come in effetti sarà, propulsione di un processo trasformativo e riformatore. Ma si tratta di un fenomeno in atto, incontrovertibile e non regredibile, e anche le immagini ne testimoniano la sempre più permeata presenza, riequilibrando lo scompenso di una percezione monoculare e monotematica. Alla mancanza di spontaneità delle interviste impostate in maniera frontale, si contrappone la debordante scompostezza e non riducibilità, ad esempio, dei movimenti dei minatori, in immersione e in uscita dall’inferno di un lavoro che non prevede sconti edificanti: i volti sporchi e tumefatti, amplificati dai passaggi tra il bianco e nero e il colore, ci riguardano nel duplice senso dell’atto di vedere di nuovo e della condizione di sentirsi parte. Allo stesso modo la disposizione orizzontale del popolo in fila per chiedere cibo o un paio di scarpe è lo scatto/scacco della falsa coscienza di un occidente cosi liminale e in prossimità, sul punto di esplodere nella più sfacciata opulenza degli anni 80. Seppur nella complessità e nell’acutezza, c’è dunque un posizionamento preciso di Wolski nei confronti di quello che sceglie di far vedere, una volontà di decostruire dall’ interno una visione degli avvenimenti che vorrebbe risolvere il conflitto, perdipiù generazionale e collettivo, senza attraversalo verticalmente.

Il filmmaker-editor invece sta in mezzo a quella gente, con una veemenza che ricorda a tratti le prime opere di Béla Tarr (Nido famigliare, L’outsider, Rapporti prefabbricati) nell’entrare dentro le case, sulle facciate dei palazzi, nei corridoi delle scuole o nelle sale da ballo, attratto da un’età giovane che vuole avere la possibilità di immaginarsi in un altrove più equo e solidale e di esplicitare la richiesta di un futuro (domanda alla quale i tecnocrati dell’esercito, nelle imbalsamate vesti/uniformi dello speaker televisivo già menzionato, non sono più in grado di rispondere). L’esposizione del meccanismo metacomunicativo crea inoltre un collegamento con il cinema di Andrzej Wajda,  il cineasta polacco che più di ogni altro ha raccontato quei giorni di cambiamento e rivoluzione nel loro farsi: in particolare ne L’uomo di ferro (1981) la struttura del film nel film, con il finto reportage /documentario sullo sciopero avvenuto nel 1980  che la giornalista interpretata da Kristina Janda è chiamata a realizzare dal regime, è il segno di quanto la riflessione critica dei fatti passi attraverso una messa in discussione delle forme e degli strumenti con i quali si raccontano. Il resoconto della fine del sogno di una cosa, sbalzata fino al prologo di un’ Europa che non ha mai veramente fatto i conti con il suo est, lasciandolo appeso a testa in giù alla pertica di una perenne legge marziale.


A Year in the Life of a Country (Rok z zycia kraju) Regia, sceneggiatura e montaggio: Tomasz Wolski; origine: Polonia, 2024 ; durata: 84 minuti.

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