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Voto
Se andando a vedere l’opera seconda di Nessim Chikhaoui qualcuno si aspettasse di trovarsi di fronte ad un commedia romantica con qualche tocco di polemica sociale, visto il fuorviante titolo italiano che rimanda a quello di un vecchio film, Un amore a 5 stelle di Wayne Wang con Ralph Fiennes e Jennifer Lopez (quello sì decisamente derivativo del genere in questione), rimarrebbe spiazzato; perché in realtà, Uno sciopero a 5 stelle, pur contenendo esplicitamente degli elementi comici ed ironici, si concentra tutto sul termine sciopero e sulle implicazioni che porta nelle vite delle sue protagoniste: uno spaccato multigenerazionale e multietnico di donne che, nella Parigi contemporanea, lavorano come cameriere ai piani di un lussuoso hotel a “5 stelle”, appunto. Il tono è quello del bozzettismo corale di caratteri e situazioni, con la giovane e spiantata Eva, che vive alla giornata guidata da un risoluto e istintivo senso per ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, a fare da filo conduttore nella conoscenza di un drappello di figure dove spicca la burbera e disincanta (apparentemente, ca va san dire…) Simone, ma anche l’orgogliosa mater familias Safiatou e la pragmatica e formale direttrice del personale Agnes. La sceneggiatura, abbastanza agile, corre dunque su un doppio piano: quello dell’interazione tra le compagne di lavoro con i loro problemi quotidiani, legati in gran parte alla condizione di straniere vincolate dal contratto di lavoro a qualsiasi costo per poter ottenere il permesso di soggiorno, e una riflessione piuttosto puntuale sull’attuale stato del classismo in Francia. Che non passa solo per gli status symbol del possesso e del lusso- una camera d’albergo costa quasi diecimila euro a notte, una sproporzione rispetto a quanto viene pagata la mano d’opera e a quante risorse vengono impiegate per tenerla pulita e ordinata secondo uno standard stellato-ma più strutturalmente nelle forme contrattuali che regolano le assunzioni: la distinzione tra interne, dipendenti dirette della struttura, e le esterne, inviate dall’agenzia interinale, è lo spartiacque che segna l’appartenenza o meno ad un altro livello del contesto sociale. Emblematica, e molto efficace, è in questo senso la sequenza della festa aziendale, dove le lavoratrici interinali sono costrette ad aspettare, isolate in un’altra stanza, il termine della cena per poter poi rimediare qualche avanzo prima di risistemare e ripulire la scena di quella macroscopica discriminazione, dove non hanno avuto il diritto di mangiare assieme alle colleghe con le quali lavorano fianco a fianco ogni giorno.

Chikhaoui inserisce, nell’arco del racconto perlopiù brillante e leggero, questi momenti di attenzione e di precisione, come anche quando la rigida Agnes mostra ad Eva il modo in cui bisogna curare ogni dettaglio di un ambiente, rivelando di essere stata lei stessa una cameriera ai piani, prima di passare dall’altra parte, un gradino più alto del verticale organigramma. Non siamo ovviamente di fronte al cinema dei fratelli Dardenne che scavano fino all’osso nella profondità di un gesto reiterato, trasfigurato nel segno non solo di una fatica contingente, ma anche di un modo radicale di stare al mondo, con la volontà di prenderlo di petto nella sua direzione ostinata e contraria. La presa di coscienza di Eva e le altre, inclusi i picchettamenti sotto l’albergo quando le condizioni si fanno troppo intollerantemente inique e sfruttanti, ha un qualcosa di festoso happening che neanche il drammatico momento dello sgombero da parte della polizia sembra poter interrompere o spezzare. La solidarietà entra quasi subito in gioco, e non ne è esclusa neanche Simone, una volta resasi conto che la sua dedizione al lavoro non verrà ripagata con un giusto pensionamento, secondo una logica di diseguaglianza sulla quale si poggia il sistema economico neoliberista finalizzato a prendere e non a restituire; è sarà proprio il corpo acciaccato e ferito di Simone, la sua schiena traballante, a far cadere il paravento della falsa protezione e dell’inesistente tutela riversate in un ceco stacanovismo, al pari delle manifestanti sbattute sul marciapiede dalla polizia. A quel punto, interne ed esterne, regolari e clandestine, occidentali ed africane si troveranno insieme nella medesima posizione di rivendicazione le une per le altre, senza più il porzionamento dell’interesse personalistico ( anch’esso foraggiato dalla mentalità neoliberista che per controllare ha bisogno di dividere ed isolare). L’impianto polemico degno del più militante Ken Loach, non si traduce però in immagini che ne restituiscono la densità e la forza dell’affondo critico. Lo smussamento è sempre dietro l’angolo, come la sequenza in cui le scioperanti improvvisano sul luogo della protesta una sfilata d’alto bordo, giocando in provocazione sul significato di lusso e di stile. Ad accompagnare la strampalata kermesse c’è tra l’altro in sottofondo una vecchia hit del passato, il reggaeton Here Comes The Hotstepper di Ini Kamoze, che faceva parte della colonna sonora di Pret-a-Porter (1994), sprezzante affresco sulla superficie e sul vuoto griffati del mondo/passerella della moda parigina, a firma Robert Altman. Se sia o meno una citazione, cosa piuttosto improbabile da pensare vista la distanza temporale e la differenza sui contesti rappresentati, non toglie nulla al fatto che rimandi a un sentimento tutt’altro che di rigorosa e appassionata lotta sindacale, quanto a una provocazione un po’ ad effetto, per creare una digressione pop di puro intrattenimento.

Alla fine non potrà che vincere la fazione delle sfruttate, le quali vedranno riconosciuti i propri calpestati diritti, con un ottimismo al confine tra l’utopistico e il manicheo. Una celebrazione alla luce del giorno di quelle “piccole mani” (il titolo originale) che entrano fin dentro le zone più private ed intime-i bagni, i letti- di coloro dai quali sono separate per potere, privilegio, posizione. A essere contagioso è l’entusiasmo battagliero di Eva e non il distacco di Simone, che però quando smette di lavorare può finalmente cominciare a danzare e, si può aggiungere, parafrasando una celebre frase della grande anarchica Emma Goldman, a ballare la propria rivoluzione. Siamo al limite della favola a sfondo sociale, un controcampo rispetto all’amarezza, ad esempio, del recente Tra due mondi (2021) di Emmanuel Carrere, nel quale Juliette Binoche interpretava una giornalista che, per scrivere un reportage sul precariato, si fingeva addetta alle pulizie sui traghetti andata e ritorno in transito sulla Manica. Forse perché in quel caso la denuncia veniva raccolta per il tramite di una manipolazione e di una simulazione d’identità fino a ristabilire l’ordine costituito, quando Binoche tornava a guardare dalla propria prospettiva di privilegiata, lasciando le altre donne, con le quali aveva stabilito un rapporto di fiducia e di confidenza, con lo sguardo stanco e perso in massacranti notti senza fine e sempre uguali a se stesse. Per questo l’ottimismo di Chikhaoui, per quanto appaia un po’ stonato, talvolta, in fin dei conti, è necessario a credere che ci sia una comunità reale intorno al singolo in balia dell’ingiustizia, e non soltanto la narrazione fittizia di un mondo senza pietà.
In sala dal 24 luglio 2025.
Uno sciopero a 5 stelle (Petites Mains ) – Regia: Nessim Chikhaoui; sceneggiatura: Nessim Chikhaoui, Helene Fillieres; fotografia: Jean-Marc Fabre; montaggio: Sarah Ternat; musica: Demusmaker; interpreti: Lucie-Charles Alfred, Corinne Masiero, Marie-Sohna Condé, Mariama Gueye, Salimata Kamate, Maimouna Gueye; produzione: Alice Labadie, Matthieu Tarot; origine: Francia, 2024; durata: 87 minuti; distribuzione: 102 Distribution, Unicorn
