Uscì domani: Ti ho sposato per allegria di Luciano Salce

La donna che tenta di buttarsi giù da ponte Sant’Angelo, all’inizio di Ti ho sposato per allegria, il film di Luciano Salce appena restaurato, presentato alla Mostra di Venezia ‘82 (sezione Venezia Classici) e uscito al cinema domani, 21 settembre 1967, può ricordare l’Adriana Astarelli di Stefania Sandrelli, nella struggente eccellenza di Io la conoscevo bene, diretto da Antonio Pietrangeli, 1964.
Perché anche lei, oltre a pensare di chiuderla lì in un momento di smarrimento, è arrivata a Roma da un paesino dell’Italia centrale (vicino Vicovaro), povera e attirata dalle sirene dello spettacolo.
Solo che di tutt’altra pasta è fatta la donna qui interpretata da Monica Vitti, in questo ruolo cerniera, intercapedine tra le sofferenti, complesse, moderne – appunto vittiane – donne di Michelangelo Antonioni, e la dinamite sicula di Assunta Patanè, in La ragazza con la pistola di Mario Monicelli, anno 1968. Ribaltamento comico da allora irreversibile per l’attrice romana.
Però di nome fa Giuliana, la protagonista di Ti ho sposato per allegria, proprio come in Deserto Rosso del maestro ferrarese. Le assonanze finiscono lì? In (buonissima) parte sì, perché questa Giuliana rinsavisce in fretta e filtra tutto con una vistosa, comica leggerezza. Vi smussa la sensazione di inadeguatezza, le insicurezze sociali ed esistenziali. Le sfuma nel pop delle inquadrature, le conduce in una forma cinematografica sottilmente aliena, per l’Italia di quegli anni.
Già nella prima sequenza, Giuliana sfoggia un outfit da moda spaziale, che porta più dalle parti di La decima vittima di Elio Petri, di soli due anni precedente, che altrove.
Ti ho sposato per allegria fa della luminosità visiva, eccentrica, la sua identità; della distanza dalla commedia all’italiana e di una certa inafferrabilità di fondo, la sua personalità: con la sua confezione colorata e il letto tondo, arancione al centro della stanza, con la sua morbida iperbole e la sua chiara impronta teatrale, nettamente dichiarata dal film come trasposizione della pièce omonima di Natalia Ginzburg (anche co-sceneggiatrice del film), diretta a teatro dallo stesso Luciano Salce, con Adriana Asti nei panni della protagonista.
La leggerezza, dicevamo, è per certi versi il contenuto del film, visto il rapporto tra temi affrontati e quella certa, mai del tutto efficace, volatilità espressiva dell’opera. Vista, soprattutto, la scelta dei personaggi di vivere saltando (simbolicamente) sopra un telo elastico, piuttosto che lasciarsi sfinire dai mille, anche dolorosi, perché della vita.
Nonostante tocchino argomenti forti, i protagonisti agiscono come se stessero parlando di cose piccine, ma in questa sospensione emotiva si infilano, come un ago sottile, le riflessioni di una donna in cambiamento, malinconica, alla ricerca di un nuovo equilibrio, di una nuova comprensione della realtà.
Ecco che la distanza da Antonioni, allora, evidente in modo assoluto nella forma e nella profondità, non è poi così abissale nella direzione.
Giuliana ci parla del rapporto con gli uomini chiedendosi dove si siano cacciati quelli che meritano di essere amati, quelli che vale la pena amare, e da questo punto di vista la sua frase è ancora attuale.
Lo dice guardando fuori dalla finestra, mentre questo film dal ritmo non esaltante, a tratti vittima di verbosa monotonia, entra nel tema del matrimonio e dell’amore, in quelli dell’emigrazione interna, delle differenze di classe e dell’emancipazione di una donna che non vuole più andare a servizio – dice un’altra frase del film – ma a lavorare in fabbrica, dove ci sono i comunisti che la rende sovversiva.
Ti ho sposato per allegria sussurra allo spettatore tematiche che alla vigilia del ‘68 si facevano urgenti e che oggi, quasi sessant’anni dopo, diventano fotografie del costume in movimento, non sempre chiarissime, aperte all’interpretazione.
Il matrimonio, per esempio, viene demolito tout court, oppure consigliato come scelta da vivere con emozioni sincere, oltre le convenzioni piccolo borghesi? Oltre il concetto di “sistemazione” e oltre l’acme mito dell’innamoramento sfrenato? È possibile, viene da chiedersi, che ci sia il consiglio, più o meno velato o consapevole, nel film, di vivere il matrimonio serenamente, con il giusto e saggio grado di semplicità? Come modo per stare in coppia con armonia, tranquillità, intesa, divertimento e gentilezza?
Si dicono che insieme stanno bene, la Giuliana di Monica Vitti e suo marito Pietro, borghese avvocato interpretato da Giorgio Albertazzi. Può esserci un elogio della realtà, allora, di quel tangibile quotidiano, oltre i dubbi sul grande amore?
Dicono di non essere certi di amarsi, Giuliana e Pietro, intendendo forse di non essere all’altezza di quell’amore ideale, persino teorico, col quale ogni amore, e ogni vita di coppia, si trova a fare conti. Per quanto si conoscano da un mese e siano sposati da ancora meno, sembrano voler esprimere il bisogno di superare certe sovrastrutture socioculturali del tempo. Intercettano l’esigenza di un nuovo allora necessario.
C’è dunque, seppure nebulosa, in questo film con vista meravigliosa su Roma (la casa della coppia è al Gianicolo) una riflessione sull’unione sentimentale, dove il concetto di allegria è un valore, e il matrimonio un piacere magari leggero, ma anche autentico, oltre la convenzione e l’assolutizzazione dei sentimenti, oltre le parole forti ma vuote.
Giuliana dice che con Pietro non si sente sprecata, ed esorcizza, accanto a lui, la sua paura di fondo di aver sbagliato tutto, di non essere all’altezza. Insieme gestiscono efficacemente il pranzo con una suocera a dir poco impegnativa (la mamma di lui) e sembrano farlo rimanendo uniti, con Pietro più consapevole che succube di certe dinamiche madre/figlio maschio.
Eppure, contemporaneamente, Ti ho sposato per allegria sembra voler usare il matrimonio stesso più come pretesto per parlare di quel momento vigiliare della società italiana e non per indagarlo davvero, per entrare nella sua essenza, nella sua fragilità e nella sua forza.
Sarebbe arrivato anni dopo, nel 2002, un film capace di parlare con energia luminosa del matrimonio: di osservare quella fragilità e quella forza con grande attenzione. La sua funzione e la sua bellezza. I pericoli che lo minacciano, interni ed esterni. Il suo valore per le persone e per la società.
Quel film è Casomai di Alessandro D’Alatri: prezioso, sulla verità dell’amore coniugale e del matrimonio stesso.


Ti ho sposato per allegriaRegia: Luciano Salce; sceneggiatura: Sandro Continenza, Natalia Ginzburg, Luciano Salce; montaggio: Marcello Malvestito; fotografia: Carlo Di Palma; interpreti: Monica Vitti, Giorgio Albertazzi, Maria Grazia Buccella, Rossella Como; produzione: Mario Vecchi Gori per Fair Film; origine: Italia, 1967; distribuzione (all’epoca): Titanus.

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