We Live In Time -Tutto il tempo che abbiamo di John Crowley

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Quante volte abbiamo visto raccontata, specialmente nel cinema angloamericano, la storia d’amore di una coppia di giovani di belle speranze nel corso del tempo, dall’immaturità e dalle paure iniziali fino agli inevitabili incroci attraversati da gravidanze, malattie, tradimenti, incomprensioni? We Live In Time-Tutto il tempo che abbiamo, diretto da John Crowley, un regista irlandese  affezionato alle piccole ed intime epopee quotidiane di personaggi coinvolti in grandi eventi ( l’emigrazione irlandese verso gli Stati Uniti in Brooklyn, la minaccia e il trauma degli attentati terroristici ne Il cardellino, 2019), propone l’ennesimo duetto di un uomo e una donna che ispirano subito simpatia, a partire dai nomi non proprio comuni: lei si chiama Almut, fa la chef in un particolare ristorante di fusion con la cucina bavarese, ed è determinata, indipendente, avversa alle pastoie della famiglia e della maternità; lui è Tobias, è il rappresentante di una ditta di cereali, e sembra più remissivo e precario nonostante la strutturata apparenza di borghese controllato, come dimostra il primo incontro con Almut. Si ritrova infatti ad essere investito dalla ragazza mentre sta andando a procurarsi, in accappatoio, una matita per firmare le carte del divorzio dalla prima moglie. Ma questo tragicomico e buffo crash, continuato nel corridoio di un pronto soccorso, non introduce l’ordine cronologico del racconto, il quale invece si concentra simultaneamente su più piani temporali, non esattamente o cosi seccamente riconducibili alla distinzione tra passato, presente e futuro. Si tratta di momenti della loro vita in comune molto ravvicinati, tanto da poter essere confusi e sovrapposti dentro un flusso nel quale si intravede la fragile architettura della vita che va e viene  in micro istanti, e non solo nei grossi gap temporali (confermando la tendenza di Crowley per il minimalismo).

In realtà ci sono tre eventi importanti a scandire questi andirivieni: l’innamoramento, la malattia di Almut – un cancro ovarico che si presenta e ripresenta – il concepimento e la nascita della figlia Ella. Gli elementi basici del family drama ci sono dunque tutti, rievocando quel cinema che, specialmente negli anni ’80, aveva cominciato a ripiegarsi nel privato aggredito dalla saturazione consumistica di spazi e immaginari dell’edonismo reaganiano- e per, contraccolpo transcontinentale, del liberismo thatcheriano – e a sentire la necessità di rappresentare gli effetti di una recessione emotiva e psicologica sulle vite della Gente comune. Ma più che il film di Robert Redford, più maturo e malinconico nel suo disaminare gli interni strazianti dell’assenza e del bisogno di amore/calore, We Live In Time possiede la sporcatura dei corpi vissuti, desideranti e malati di James L. Brooks, in Voglia di tenerezza, dove c’era un’altra donna malata terminale di cancro, l’Emma di Debra Winger, a far vibrare di commozione e sensualità la fragilità dei legami (nel caso specifico con la possessiva e vitalissima madre bigger than life impersonata anima e corpo da Shirley MacLaine).
Nel frattempo c’è stato però il filtro di altre crisi e trasformazioni sociali e culturali , delle quali Almut e Tobias, con il loro bruciante desiderarsi in scene di sesso cosi repentine e seguite poi dalla quiete della tenerezza brooksiana, si fanno portatori come schegge di una frammentazione, di un’indecisione che va continuamente corretta, presa di petto, sterzata su digressioni dove il sentire e l’agire hanno un peso specifico più determinante della ponderatezza e della programmazione. La contraddizione, che è anche un po il limite del film, sta però nel fatto che si sente una certa costruzione di fondo, una scrittura che a tratti è palese nel cercare di tenere in equilibrio, invece di lasciarli deflagrare in un’esplosione jazzista e performativa alla John Cassavetes, il dramma e la commedia, le situazioni bizzarre – oltre all’incidente di Tobias, il parto in una stazione di servizio – e  i momenti mélo. Il pericolo della narrazione forte è dietro l’angolo di un litigio o di una riappacificazione, del passaggio dalla gloria della performance culinaria alle olimpiadi degli chef europei (a cui l’Almut dei giorni contati partecipa per lasciare alla figlia un segno diverso dal solo ricordo del suo declino, come dice in una scena molto toccante e ben scritta) al mollare tutto un attimo prima della consapevolezza della fine per l’ultima intimità domestica.

Ogni personaggio, inclusi i commessi della stazione di servizio dove Almut partorisce, sono visti con affetto e simpatia, e di fatto la sgradevolezza, anche quella della morte, viene risolta con un eccesso empatico che rasenta talvolta il sentimentalismo, senza la smorfia di sdegno o l’urlo rabbioso che era capace di opporre la meravigliosa Aurora/Shirley di Brooks agli schiaffi tutt’altro che ineluttabili del destino.  Tra le tante opere più recenti che hanno investigato il microcosmo dei rendez-vous amorosi , il titolo più  speculare in  rapporto formale e contenutistico con questo potrebbe essere allora Blue Valentine  di Derek Cianfrance: anche lì una coppia, ma decisamente più infelice e incapace di comunicare – oltre che appartenente alla precarietà non solo esistenziale del proletariato di periferia -veniva rappresentata nell’asincronia di varie fasi. Al contrario, però, nel film di Cianfrace non c’era nessun riscatto o chiusura del cerchio intorno alla triade familiare, il nucleo veniva scomposto in individualismi e singolarità che recriminavano il loro non desiderarsi, non amarsi e non capirsi più, e le uniche immagini che restavano potevano essere solo quelle delle cartoline sui titoli di coda di una sorta di felicità effimera, incontrata forse quando si era troppo giovani e non consapevoli.

Almut e Tobias potrebbero essere gli alter ego più grandi  di Cindy e Dean in Blue Valentine,  che cercano di tenersi insieme di fronte alla frammentazione suddetta, anche in contrappunto alle loro scelte (Almut, alla prima diagnosi del suo tumore, sceglie di non farsi asportate completamente l’utero per provare successivamente ad avere un figlio nonostante fino a quel momento avesse sempre rifiutato l’ idea) e pagano le conseguenze, in termini strettamente temporali, di una forma non di meditata resilienza ma di tenace, scomposta resistenza.

La programmaticità di questa pur gradevole messa in scena ha il suo punto di forza, come era ovvio ma non scontato, nella scelta degli interpreti principali, sui quali c’è comunque da fare un distinguo. L’alchimia, anche e soprattutto fisica, di Florence Pugh e Andrew Garfield li rende credibili, tangibili, tridimensionali, li fa esistere sullo schermo fuori dalla pagina e dalla parola, nonché dalle maglie di una regia talvolta calibrata e abbastanza prevedibile . Ma è Pugh, con il suo corpo minuto e formoso e il suo tondeggiante volto da bambina precocemente cresciuta o da bambola di porcellana che è diventata carne e sangue, a lasciare il segno (con Garfield comunque all’altezza come paziente e premuroso controcampo). Rimarrà il suo ritratto di donna malata e vitale, e in particolare un gesto: quella scia di commiato compiuta su una pista di pattinaggio di fronte a marito e figlia, proprio come faceva il personaggio di Holly Hunter in uno struggente, piccolo film dimenticato di Lasse Hallstrom, Ancora una volta (1990): In quel caso era il marito interpretato da Richard Dreyfuss ad essere morente, mentre qui è Almut/Florence ad annunciare la sua dipartita, anche se di fronte alla sua interpretazione non possono che risuonare  le stesse parole, il medesimo refrain… Ancora una volta.

In sala dal 6 febbraio 2025.


We Live In Time-Tutto il tempo che abbiamo (We Live In Time)  – regia: John Crowley; sceneggiatura: Nick Payne; fotografia: Stuart Bentely; montaggio: Justine Wright; musica: Bryce Dessner; interpreti: Florence Pugh, Andrew Garfield. Adam James, Marama Corlett, Aoife Hinds, Nikhil Parmar; produzione: Film4 Productions, SunnyMarch; origine: Regno Unito, 2024; durata: 107’; distribuzione: Lucky Red.

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