William Friedkin, in memoriam: Il cinema (attra) verso e oltre la realtà

I film di William Friedkin, scomparso un po’ inaspettatamente il 7 agosto quando attendevamo la sua sempre generosa e disponibile presenza all’imminente Mostra del cinema di Venezia (dove saranno presentati il “classico” L’esorcista e la sua ultima e purtroppo postuma opera, una nuova versione de L’ammutinamento del Caine) sono collegati in maniera indissolubile e radicale al sentire e vedere come esperienze primariamente sensoriali, ancor prima che emotive e celebrali. La sua capacità nel portare sentimenti e pulsioni che sono cosi immediatamente familiari e riconoscibili- per quanto talvolta sepolti e rimossi – come la paura, il desiderio sessuale, l’istinto di vita e di morte, la tensione verso il trascendente e l’assoluto – nella dangerous zone di un immaginario cosi avvolgente e stordente nella totalità del campo visivo/auditivo, rendono la sua morte una circostanza  particolarmente triste, come se ci fosse stato strappato un pezzo importante del processo con cui, da un certo punto in poi, abbiamo imparato a vivere e morire di cinema.

Fondamenta(le) nella costruzione di questa struttura percettiva –  che possedeva sempre l’immediatezza e la tangibilità di un polveroso cantiere work in progress in continua trasformazione –  è L’esorcistail suo film più celebrato e fenomenale, nel senso anche di fenomeno sociale e antropologico vista la profonda, sconvolgente partecipazione psicosomatica da parte degli spettatori in sala, con tanto di svenimenti e malori. Ed è emblematico anche dell’approccio  di Friedkin alla materia/soggetto (che nelle opere sia precedenti che successive cambia in quanto racconto del cosa, ma non nel suo nucleo profondo, nella sua essenza): il romanzo di William Peter Blatty  da cui ricavò l’adattamento cinematografico,  si ispirava a sua volta ad un caso di cronaca su un esorcismo praticato su un ragazzo di 14 anni e riportato dal “Washington Post” nel 1949; e il film nel suo impianto e nella sua minuziosa, dettagliata ricostruzione, pur rispettando la linea narrativa contenuta nel libro di Blatty che scrisse anche la sceneggiatura (la protagonista diventa una bambina di 12 anni figlia di un’attrice di Hollywood) possiede questa radice documentaria, la  necessità di rendere credibile, o meglio di fare credere in un’accezione realistica e materica a qualcosa di imponderabile e non rappresentabile. Di materia era fatta anche le pellicola sulla quale veniva dunque impressa la verità di un set dove ogni effetto esisteva concretamente e  non come una forma di suggestione o una stilizzazione simbolica: il fumo che esce dalla bocca degli attori durante la lunghissima sequenza dell’esorcismo è provocato dalle bassissime temperature alle quali la stanza del personaggio di Regan era stata portata da potentissimi refrigeratori industriali utilizzati per creare quel clima ultraterreno; e il gesto che fa Ellen Burstyn, che interpreta la madre,  nel toccarsi la schiena quando viene scaraventata a terra dalla figlia indemoniata esprimeva il dolore autentico per il violento impatto subito. Tutto ciò contribuisce a creare una sorta di empatia e di immedesimazione che passa prima attraverso la fallibilità desiderante e deperibile del corpo, e poi,  come in una laica trasfigurazione di un martirio cristologico, secondo il credente cattolico Friedkin,  che permette di immergersi negli antri della propria dualità esistenziale, alle prese con una  lotta sempre più  struggente tra bene e male, luce e oscurità, ordine e caos, controllo e irrazionalità. Ma è troppo limitante utilizzare il termine dualità, perché il suo sguardo non filma questi elementi come qualcosa di separato, dove ci sono i giusti e i buoni da una parte e i malvagi e gli iniqui d’altra, non offre questa consolatoria e rassicurante possibilità di prendere posizione nella confort zone di una prospettiva solo nitida e senza affondi nell’ oscurità interna ed esterna. Le sue immagini sono stratificate com’è stratificata la presenza di  Regan, la bambina demonio, a partire dall’incredibile lavoro di make up, nuovamente qualcosa di fattuale e tangibile, eseguito sul volto di Linda Blair; una mutazione che è progressiva, brutale, spaventosa, un’entità dove si sovrappongono l’umano e l’ extraumano percepito come un mix di bestiale e mostruoso, ma in qualche modo facente intrinsecamente parte della nostra natura.

Un’impronta potente e manifesta, la capacità, che probabilmente riassume anche tutto il senso di quell’ audace e portentosa stagione del cinema americano degli anni ’70, di sintetizzare ambiguità e trasparenza, come fossero un ossimoro e una peculiarità prettamente cinematografiche; anzi di mostrare apertamente , con la stessa densità di un’operazione a cuore aperto, i conflitti di una società senza più sacra fede o laica fiducia. Un mondo che si stava chiudendo in un individualismo esasperato e aggressivo, che annullava la concretissima utopia post rivoluzionaria di solidarietà ed uguaglianza.

Uno dei fraintendimenti che ha più spesso investito i film di William Friedkin, particolarmente nelle stagioni calde in cui sono usciti , è stato il voler trovare per forza l’esposizione e la dimostrazione di una morale, una tesi o di un qualche pregiudiziale convincimento, magari per il suo rapporto cosi diretto e non celato con la religione e la spiritualità. Esemplare è il caso di Cruising che, quando uscì nel 1980, venne  attaccato e boicottato dalle associazioni omosessuali statunitensi, proprio per la sua rappresentazione del sottobosco dei club sadomasochisti omosessuali, intorno a cui gira la fosca storia noir di un serial killer, che sembrava identificare con esso tutta la comunità gay . In realtà, con la sua identità poetica e stilistica così autoriale, Friedkin era riuscito a imprimere una plasticità, uno spessore e un’ intensità a quel microcosmo ancora nascosto, segreto e relegato ai margini di un marciapiede o dell’anfratto di uno scantinato da far saltare le certezze, le rigidità, le barricate tra cosa e come si può desiderare sulla Linea Maginot tra legittimo e illegittimo  (basti osservare l’evoluzione/dissoluzione del personaggio del poliziotto sotto copertura interpretato da Al Pacino con gli occhi più perturbati e perturbanti di sempre). E ci dice che la repressione degli istinti e degli impulsi spinge all’esasperazione, all’iperbole del delitto come gesto sublimale e catartico (la catarsi di un’ impotenza, altro ossimoro,  che infatti non viene mai soddisfatta).

L’acuta, implacabile, precisa visione di Friedkin si è così manifestata, nel corso di un periodo che include almeno 5 decenni, sulle multiformi realtà che ha indagato e trasceso. Soggetti spesso messi alla berlina per svelarne il lato tragico e il riflesso di un rigido condizionamento sociale,  come in Festa per il compleanno del caro amico Harold  (che già nel 1970 parlava di omosessualità, mettendo in scena, con un  magistrale uso degli ambienti e dei dialoghi, le frustrazioni e le infelicità di un interno borghese) o nel più recente Killer Joe, con la famiglia della middle class completamente smembrata nelle sue pieghe di abuso, avidità, manipolazione e sadismo (più che mai feroce nella versione sottoproletaria dell’istituzionalizzazione dei ruoli patriarcali).

E, prima delle storie, restano gli attraversamenti di uno spazio e di un tempo che vengono riformulati, non solo dentro i codici di un  genere limited edition,  poliziesco o noir che sia, ma calati nell’ontologico dinamismo di un cinema (e) motion picture. Se dovessimo eseguire anche solo mentalmente e a memoria, una lunga carrellata del cinema friedkiniano dovremmo cosi focalizzarci sulla scomposizione dei piani visivi e d’ascolto di una possibile trilogia del movimento catturato nel suo estendersi e contrarsi per luoghi e città, dei quali si coglie il vitalismo rasente la decadenza e la distruttività. La mano guantata di Fernando Rey, dandy del narcotraffico, che saluta sarcasticamente da dietro il finestrino della metro il Gene Hackman sfiancato dalla corsa fino all’ultimo respiro per catturarlo (Il braccio violento della legge); la presenza immanente di una criminalità che bracca a colpi di fucile, sotto ogni cavalcavia e da ogni multicorsia delle strade californiane, i poliziotti corruttibili William Petersen e John Pankow, la cui salvezza può essere solo andare in una direzione ostinata e contraria (Vivere e morire a Los Angeles); e , probabilmente più di tutti, la sovraimpressione del volto ridotto a maschera sempre più isterica e terrorizzata di Roy Scheider alla guida di un camion carico di dinamite sulla desolazione desertificata e virata in un blu da notte imminente del mortifero paesaggio sudamericano ne Il salario della paura (che, più che a Vite vendute di H.G. Clouzot, del quale riprende l’ispirazione del racconto di Gerges Arnaud, fa pensare fa pensare allo stato allucinatorio dei commensali impazziti de L’Angelo sterminatore di Buñuel ).

Immagini che continuano a venirci incontro con l’impatto di un’istantanea, la regolarità di un’ ossessione, il dono di un’ispirazione. Come William Friedkin, esegeta di ciò che è davanti e dietro i nostri occhi.

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