Il corpo di William Hurt è stato probabilmente il più erotico, audace e trasformista fin da quando ha cominciato ad apparire nei laccati ed edonisti anni ’80 di trasgressioni solo apparenti, che comunque hanno avuto delle notevoli e inaspettate vampate nel cinema nord americano, alcune delle quali presentavano come protagonista questo bellissimo attore wasp ( white-anglo saxon -protestant, ovvero “bianco, anglosassone e protestante”), scomparso il 13 marzo, una settimana prima di compiere 72 anni – in una maniera discreta e un po’ autunnale, sempre poeticamente in asincrono, come in fondo lo è stato per tutta la sua carriera, rispetto alla stagione in corso, in questo caso l’esplosiva e caotica primavera di guerra che stiamo vivendo.
E parliamo degli anni’ 80 perché per chi scrive, essendo nato nel 1977, il ricordo più accesso ed intenso della sua presenza sullo schermo grande e piccolo (quello di una televisione, sia pubblica che commerciale, che trasmetteva un cinema perturbante e vertiginoso in orari consentiti a tutti) è legato proprio a quel decennio di film, aperto e chiuso simbolicamente e rispettivamente da I cancelli del cielo di Michael Cimino (1980) e The Abyss di James Cameron (1989): due capolavori anch’ essi asincronici, mutanti, magniloquenti e intimi insieme, l’apoteosi dell’autorialità e il collasso (per superamento e sfinimento ) del cinema commerciale.
William Hurt non era presente in nessuno dei due, eppure ha rappresentato quello stesso senso di smarrimento e ricerca, ma anche di affabulazione e fascino. La sua fisicità lo rendeva il naturale erede della tradizione delle grandi star , novello Robert Redford di una new-new Hollywood che, a una certa spavalderia mischiata con l’impegno politico e sociale degli anni ’70 , rispondeva con un’aura sfuggente e garbata ancora più antidivistica, e con un tormento viscerale e insieme nevrotico che invece si imponeva subito necessario, potente, ammaliante.

Magari siamo troppo condizionati dalla sua prima apparizione in un’opera radicale e visionaria come Stati di allucinazione, diretto da un fenomenale autore dell’irregolarità come Ken Russel, con William nel corpo-ruolo di uno scienziato e psichiatra che, tra sostanze psicotrope e vasche di deprivazione sensoriale, regredisce fino ai primordi dell’umanità e dell’universo. Quanto sono ancora scioccanti le immagini di lui, intrappolato tra suggestioni estetiche a metà strada tra la carnalità grondante eros e disfacimento di Francis Bacon e i corto circuiti spazio-temporali metafisici di Giorgio De Chirico, a cui solo l’amore può restituire una sostanza e un’apparenza umane. Da quel momento in poi il “corpo- Hurt” ha continuato ad essere presente in una nudità fragile, densa, voluttuosa: Body Heat, il “corpo caldo” , era il titolo originale di quello che nella versione italiana, in maniera meno provocatoria ed eccitante, divenne solo Brivido caldo, prima collaborazione tra Hurt e il regista con cui ha più collaborato, il grande Lawrence Kasdan; e il riferimento esplicito e diretto non era solo per la conturbante Kathleen Turner come statuaria dark lady affamata di passione e denaro, ma pure per le membra altrettanto scottanti e desiderabili del bel maschio biondo costantemente undressed, in un gioco di pulsioni e manipolazioni alla pari, senza moralismi , con una messa in scena tesa e vibrante, come raramente si sarebbe visto nel cinema di quegli anni e di quelli successivi, preoccupato di rappresentare anche il sesso con la patina di un rassicurante e ammiccante buon gusto.
Nel suo raffinato e non appariscente istrionismo, Hurt applica poi una cesura su questo aspetto, interpretando il primo corpo dichiaratamente omosessuale celebrato dall’establishment con tanto di premio Oscar, il Malina de Il bacio della donna ragno, adattamento, a dire il vero piuttosto spettacolare e ad affetto, diretto da Hector Babenco, del romanzo onirico, brutale, allusivo, misterioso di Manuel Puig. E proprio nel rendere possibile la presenza eterea , fantasmatica, inaudita (con un’effeminatezza forse troppo pronunciata) di un personaggio inconcepibile tanto per la dittatura di un paese sudamericano quanto per l’immaginario fintamente progressista e sostanzialmente conservatore (almeno nel 1986) degli Academy Awards, Hurt aveva in qualche modo negato e contraddetto l’immagine di stallone del New England capace di mantenere il doppio cliché del rassicurante romantico e del minaccioso appassionato.

La capacità di essere corpo-altro, corpo ferito e umiliato, in grado di sostenere le menomazioni esteriori e interiori, e di attraversare l’amore impossibile e incomunicabile con la protagonista sordomuta di Figli di un dio minore (con Marlee Matlin, che era veramente sordomuta e che veramente ebbe una storia d’amore con lui , fuori dal set); sempre per Randha Haines , onesta e diligente ma non ispiratissima regista di quel film, fu poi Un medico, un uomo (in inglese più seccamente e meno pomposamente The Doctor), che scopre la sua mortalità e limitatezza non tanto e non solo quando gli viene diagnosticato un tumore alla gola; è infatti quando muore la sua amica, compagna di chemioterapia, che si apre sull’espressività quasi inesistente, perché sfumatissima e minimale, del volto bellissimo uno squarcio di pacata, sofferta intensità. Una sensazione amplificata e divenuta più abissale quando la sua figura attoriale si è cimentata dentro l’ orizzonte delle grandi, ispirate visioni: con Kasdan, di nuovo, nei primissi, dilati Close up di Turista per caso, sopravvissuto alla perdita inconcepibile e contro natura del proprio figlio e rigenerato dall’anticonvenzionale e caotico femminile di un’ addestratrice di cani (e alla fine tutti capivamo perché potesse preferire alla forza della matrona e imponente Kathleen Turner, la cialtronesca, eccentrica grazia di Gena Davis).

E poi ancora oltre, in un film speculare a The accidental tourist, che spinge più in là la fine di un decennio e anticipa quello che sarebbe accaduto nei prossimi 2000,2010, 2020…. Fino alla fine del mondo (ma ci stiamo arrivando ?) dove Wim Wenders inviava Hurt in lungo e in largo per il pianeta terra minacciato dalla distruzione atomica, viaggiatore e non più turista (come i protagonisti de Il tè nel deserto di Paul Bowles, che sanno quando partono ma non quando torneranno) a catturare attraverso un dispositivo di una tecnologia futuristica spaventosa ed entusiasmante le immagini di un ‘umanità sulla soglia dell’estinzione, cosi da poterne restituire l’esperienza alla madre non vedente e non morente . Un pretesto che, da una situazione terminale, porterà alla riproduzione infinita, esponenziale, satura di un immaginario sempre più disconnesso, alienante, mistificatorio; in una tensione sempre più divorata dal bisogno della verità dello sguardo e ossessionata dalla paura dell’inganno della mente.

Forse William Hurt era l’attore più emblematico per annunciare questa nuova era di meraviglia e sgomento, lui cosi riconoscibile, familiare, affidabile , eppure cosi distante, eterno e altrove, proiettato nella terra di mezzo di una classicità senza tempo e nel non luogo temporaneo di un futuro che ancora aspetta di essere concepito.
