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Voto
Prima ancora di scoperchiare il pc per scrivere la recensione di n-Ego di Eleonora Danco, occorre intendersi con chi si sta apprestando a leggerla, su cosa sia un film che compete nella categoria “concorso lungometraggi” di un festival come il TFF. Se si pensa che sia qualcosa di simile a quanto strombazzato con sano gusto della provocazione da Michele Placido durante la conferenza stampa dell’omaggio che il Torino Film Festival gli ha reso un paio di giorni fa (assieme a Ornella Muti), ovvero un “oggetto pop, corredato da indispensabile glamour”; beh, in tal caso il titolo che stiamo per esaminare non supererebbe neppure la selezione di ammissione alla competizione ufficiale. Trattandosi in tutta evidenza di un’opera tutta inscritta nella poetica della regista romana, la quale nel pressbook non esita a classificare il suo film in un genere che ella stessa definisce “sperimentale”; oppure, se non vi basta: “un esorcismo che ha la forma di un film”.
Per chi fosse ignaro della suddetta poetica mette conto riferire che Eleonora Danco è soprattutto un’attrice, drammaturga, e regista teatrale che da circa trent’anni scrive, produce, interpreta e dirige i suoi drammi in giro per lo stivale facendo per lo più base a Roma, che è la città ove nacque. Esattamente dieci anni fa debuttò nella regia cinematografica proprio qui, al Torino film festival, con un’opera originale e coraggiosa, intitolata N-Capace, che convinse le giurie dei più importanti premi nazionali, venendo candidata nella categoria di competenza al David di Donatello, Nastro d’argento e Globo d’oro; oltre a ottenere un paio di menzioni speciali al TFF. Oggi Eleonora ritorna sul luogo del consenso, presentando il suo secondo lungometraggio, dal titolo molto simile: n-Ego; prodotto da Inès Vasiljevic e dal noto sceneggiatore Stefano Sardo (unitisi nella casa di produzione Nightswim), ma ancora privo di distribuzione.
La trama racconta di una regista che si aggira per le strade di Roma (ma anche di Sperlonga e di Terracina) alla ricerca di un’ispirazione che non arriva; si imbatte così in una serie di epifanie che rappresentano i propri demoni interiori e che spesso riecheggiano l’autoritaria figura paterna. Epifanie che hanno il volto, il corpo, la voce e le sporcature dialettali di una congerie di esseri umani i più diversi (giovani/vecchi, maschi/femmine, poveri/ricchi, benestanti/disperati) i quali mettono in scena il portato deflagrante delle proprie esistenze; ora satolle, ora randagie, ora criminali, ora devastate.

Una galleria di uomini e donne autentici/e che squadernano a favore di camera le proprie esistenze spudoratamente, trasformandosi così da persone qualunque in personaggi giganteschi che valgono da soli il prezzo del biglietto. Reperti di popolo di abbacinante veridicità, che stridono soltanto apparentemente con il sotto-testo colto dell’autrice, con i suoi a-parte teatrali (“Basta masochismo, siamo fatti per socializzare noi teste di cazzo!”) e con l’artificio delirante di certi siparietti umoristici recitati assieme ai coprotagonisti. Persone incontrate dalla regista/attrice nel suo incerto deambulare, che la fa scontrare pure con una serie di volti noti del cinema/tv/teatro (Filippo Timi, Antonio Bannò, Elio Germano, etc.), senza che essi risaltino rispetto agli altri, anonimi, con maggior rilevanza. Poiché l’intento di Eleonora Danco (e il motivo che ci ha fatto amare il film, nonostante certe sue oggettive farraginosità narrative) non è per nulla sociologico e/o politico: non le interessa esplicare o peggio interpretare la complessità della realtà coll’imperante e onnipresente sociologismo d’accatto; con “le ideuzze falsamente edificanti” del cosiddetto “cinema del reale”. No, aggirandosi erratica-mente come manichino Dechirichiano, col volto dissimulato da una calza e armata da una cartucciera di sonniferi, la protagonista si arrende, comprensibilmente, innanzi alla “manifestazione piena di una sorta di eternità fiabesca perennemente in agguato dietro ogni circostanza ordinaria” e la rappresenta per quella che è, senza sognarsi manco per sbaglio di giudicarla.
Indossando fisicamente i retaggi della cultura novecentesca che rivendica apertamente (la metafisica di Giorgio De Chirico, il surrealismo di Luis Bunuel, etc.), Eleonora Danco conduce la sua personale esplorazione sulla condizione umana. Cercando l’autenticità va a sbattere contro i desideri e le paure del mondo, che sono dei suoi interlocutori e pure i suoi. Adottando uno stile che fonde il registro quotidiano e l’onirico; n-Ego prova a raccontare l’identità, la solitudine e la creatività, giungendo alla consolante/desolante conclusione che “la creatività è sia un’àncora di salvezza che una fonte di tormento”. Sfidando certe pigrizie convenzionali del cinema mainstream e del suo pubblico, n-Ego è un cinema che trascende la realtà, invitando lo spettatore a riflettere sulla propria esistenza. Un film che può respingere o affascinare, come quello del rumeno Radu Jude – per menzionare un esempio di “cinema d’autore” passato tanto lo scorso anno al TFF quanto questo con Eight Postcards from Utopia – e che Michele Placido di cui sopra definirebbe eufemisticamente “tedioso” ma che non può lasciare del tutto indifferenti. Poi se piace o non piace, è tutt’altra cosa.
n-Ego – Regia: Eleonora Danco; soggetto: Eleonora Danco; sceneggiatura: Eleonora Danco, Marco Tecce; fotografia: Martina Cocco, Francesco Di Pierro; montaggio: Marco Tecce; costumi: Alessandro Lai; musica: scelte da Marco Tecce; interpreti: Eleonora Danco, Filippo Timi, Antonio Bannò, Elio Germano; produzione: Inès Vasiljevic, Stefano Sardo per “Nightswim”; origine: Francia/Italia, 2024; durata: 82 minuti.
