Perugia Social Film Festival XI° – Edizione (26 settembre- 8 ottobre 2025): Jankee di Yamel Thompson (Concorso)

  • Voto

Yamel, ventitreenne messicana a Cuba per frequentare la scuola di cinema EICTV, fondata da Gabriel García Márquez a San Antonio de Los Baños, in una tappa pomeridiana a L’Avana si ritrova, per caso, a filmare Jans, diciottenne che vive perlopiù di pesca e di reggaeton. Tutto, o quasi, nasce da uno sguardo in camera di Jans e dal sentirsi guardata di Yamel. A quel primo incontro ne seguiranno molti altri, in quella che diventerà tanto la testimonianza documentaria di una storia d’amore quanto un saggio, fra auto-fiction, drammaturgie performative e cinema sperimentale, veicolante una continua interrogazione etica. Yamel cercherà, infatti, di riprendere il controllo “autoriale”, la regia che concede o nega il riconoscimento.  Nondimeno, lungo i bordi di ogni frame, vedremo Jans sfuggire alla definizione con cui lo si vorrebbe cingere, così come la peculiare forma documentaria, adottata da Thompson, la vedremo sottrarsi, con spavalda evidenza, allo spazio-tempo implicato tanto nella fiction quanto nel documentario d’osservazione o in quello d’informazione. E se è vero che nel documentario “non si può vivere due volte lo stesso momento”, che vuol dire che in esso si fa, e in modo costitutivo, anche esperienza del tempo, e ancora, con Serge Daney, che “il documentario origina l’immagine (e l’immagine è enigmatica per eccellenza)”, implicando anche sempre il fuori-campo (Ivelise Perniola, Il cinema dicotomico, in L’idea documentaria. Altri sguardi del cinema italiano, Lindau 2007), ecco che allora Thompson riesce, con questo Jankee, nell’impresa spericolata di riportarci tutti questi livelli di sguardo e di lettura. Basti pensare all’uso del fuori-campo, che nel film straborda di continuo nel corpo dell’immagine, arrivando a includere gli attraversamenti di Yamel e non solo il suo sguardo reiterato con cadenza ossessiva. Di modo che, fra desideri, corpi e affetti, quella che appare la domanda centrale si frantuma, fluttuando anch’essa in un fuori-campo enigmatico. Perché Yamel non riesce a smettere di filmare Jans? Perché non riesce a separarsi dal proprio sguardo (Jans le chiede ripetutamente di spegnere la camera, di stare nel presente della vita che accade tra loro senza l’intermediazione e il controllo della mdp)? E soprattutto perché non riesce a separarsi dallo sguardo di Jans, del “grande altro”? Interrogazioni proprie anche a una riflessione femminista, vale a dire a una indagine che implica la costituzione di una soggettività in relazione, e che attraversano, a più livelli, il film di Thompson.

In questa modalità di come stare in rapporto al soggetto/oggetto del proprio sguardo, si rinviene anche la cura rispetto a una delle regole, anzi delle pratiche, alla base della responsabilità di un lavoro documentario di questo tipo: dichiarare che la verità di ciò che si vede include la manipolazione della realtà da parte dell’autrice. Da qui la richiesta di un accordo attivo con lo spettatore, che si ritrova a porsi domande sulla liceità e soprattutto sui limiti della complessa relazione che vede dipanarsi davanti.

Al contrario di ciò che accade in lavori che vorrebbero marcare una distanza oggettiva e impersonale con il reale indagato, Jankee  non smette di increspare le onde del proprio campo d’azione e di affetti con domande strutturali, di natura estetica ed etica, inclusa quella specifica che riguarda il linguaggio di riferimento: l’analisi dello sguardo.

Altro elemento, di frequente, significativo nel documentario è la voce, che Thompson articola con finezza e intelligenza. Il voice over fuori campo, che qui, come quasi sempre nell’auto-fiction, è la stessa voce della regista, si alterna sia alla voce in campo di Jans che ai dialoghi che questi intreccia con la stessa Yamel. Voci in campo e voce fuori-campo che, insieme al resto, spingono a una riflessione, fuori dalle aspettative canoniche, sulla porosità dei confini tra ciò che è vero e ciò che non lo è, sull’imprevisto che produce le relazioni e le immagini, oscillanti tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere. Immagini emergenti da uno spazio e da un tempo abitati da conflitti e sentimenti in cui si giocano “materie” quali desiderio, potere e corpi.

Non si smette mai di guardare e di farsi guardare, di separarsi e di ritornare (trasformati nel tempo da quello stesso evento), di analizzare il senso di un amore e di poter quindi arrivare a cantare, con tono destrutturante e sullo sfondo l’ovale speculare e sfuggente di uno specchio, anche la parola tremenda di un reggaeton. L’ultima scena aprirà finalmente al fuori-campo della vita (che premeva) fuori dall’immagine.

Raccontami una storia sul mare”, chiede in apertura Yamal a Jans, “domani, mi piace il mare”, la sua flagrante risposta.


Jankee – Regia: Yamel Thompson; montaggio Melisa Liebenthal; fotografia: Yamel Thompson;  suono: Mercedes Gaviria Jaramillo;  musicaCatriel Nievas; ; produzione: Yamel Thompson, Veronica Leon, Melisa Liebenthal per Agüita Inc. (Messico), Texto Cine (Argentina); origine: Messico/Argentina, 2025; durata: 63 minuti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *