Nel mio nome di Nicolò Bassetti

  • Voto

Le luci di una città che si accendono e fanno emergere dal buio le sagome dei palazzi nell’albeggiare, con in sottofondo le voci di alcuni amici che pongono la questione, estetica, narrativa ed etica, alla base di questo documentario: cosa raccontare del processo di transizione di un uomo transgender e come raccontarlo?

Si apre così Nel mio nome, titolo quanto mai ricco di significati e prospettive del film di Nicolò Bassetti (che era passato, in anteprima, alla scorsa Berlinale nella sezione “Panorama”), si costituisce proprio sotto gli occhi nel filmare la distanza che ancora separa l’identità fisica di Leo, Andrea, Raff e Nico dall’essere in completa e totalizzante sintonia con quella psicologica, emotiva, sessuale. E si esclude da subito la possibilità di trattare un momento cosi profondo ed essenziale nella chiave di un argomento sul quale convergono testimonianze raccolte in diversi momenti della transizione, nella preconcetta volontà di offrire un quadro informativo, didattico ed esaustivo o, in maniera ancora più limitante e didascalica, di sensibilizzare la società sulle implicazioni del passaggio identitario di genere da donna a uomo (quello da uomo a donna è stato di fatto più raccontato al cinema e in televisione, forse perché reso esplicito da un impatto visivo più evidente e quindi più riconoscibile).

La strada battuta in tutti i sensi , come quella che quotidianamente percorre Nico in biciletta dal borgo provincia dove vive fino alla città dove lavora (una Bologna raramente cosi intima e segreta nel farsi scenario di ciò che da invisibile diventa visibile), si dipana aperta e ariosa tra sbandamenti, entusiasmi e quotidiane rivelazioni su quanto il cambiamento si muova talvolta in direzione ostinata e contraria, prendendo in prestito il titolo dalla celebre antologia postuma dei brani di Fabrizio De Andrè , che è anche un verso di Smisurata preghiera, una delle più accorate ballate del cantautore genovese sul desiderio di rivalsa e di riscatto degli oppressi contro le maggioranze conformiste e vessatorie; forse in questo caso non prevale quel senso di rivendicazione e disperazione che portava ad invocare, appunto, una sorta di prossima divinità parentale, diversa dai più istituzionali e distanti Dio e Madonna, per liberarsi dalle catene e dalle costrizioni di una società omologante, anche se una trattenuta, dignitosa indignazione traspare dai podcast radiofonici di Leo, che parla senza filtri e senza tabù, con un linguaggio che sa essere anche poetico e introspettivo (veramente come un De André 2.0 in FM dell’era gender), di quale ulteriore carico rappresenti per un ragazzo trans il già delicato ingresso nelle aspettative e nelle pressioni dell’età adulta proveniendo da quella adolescenziale, ontologicamente informe e confusa, anche perché non informata, rispetto a cosa sia e come si manifesti l’identità sessuale.

Perché questi giovani uomini sono sicuramente ripresi dallo sguardo attento e pudico di Bassetti nella potenzialità e nella meraviglia dei loro corpi mutatis mutandi (le cicatrici dopo le mastectomie come cesure, tagli, crisi da attraversare), ma al tempo stesso c’è lo spazio e il valore che acquista la parola, scritta o pronunciata, nella forma diaristica del monologo, in quella classicamente documentaristica dell’intervista frontale o nella dinamica relazionale del dialogo a più voci,  l’auto ed etero narrazione che crea differenze e vicinanze, e consente l’elaborazione e la sintesi di un processo cosi complesso e vibrante nel farsi visione nuova sul proprio sé.

Tutto è racconto o possibilità di racconto: la bicicletta rosa vintage che Raff sta costruendo per solcare un giorno, probabilmente, i sentieri e i paesaggi che lo condurranno a conoscere dal vero Felix, il giovane gay spagnolo con cui ha un’amorosa corrispondenza virtuale;  oppure Valentine , uno degli ultimi modelli analogici di macchina da scrivere , attraverso cui Andrea può manifestare la poliedricità della sua natura di individuo e di narratore nella frammentazione carveriana di racconti brevi sulla transessualità, veri short cuts di un’ossessione che scioglie i nodi nevrotici del desiderio nella forza espressiva dell’atto di scrivere, del tattile battere le dita sui tasti.

In alcuni momenti sembra quasi di trovarsi nel cinema fluido e trasformativo, con o senza identità di genere,  di Gus Van Sant, nei tumulti e nei moti dei suoi ragazzini in progress che si fanno movimento, accelerazione, impazienza, spesso aggrediti dalla fatalità della tragedia e della morte (le vittime della strage della scuola Columbine in Elephant, l’incidente fatale ai danni di una guardia giurata di cui è responsabile il giovane skater di Paranoid Park) qui ridimensionata alla portata quotidiana, ma non meno dolorosa e faticosa, di una vita trascorsa a farsi capire ed accettare a partire dal fatto semplicemente di esistere (uno dei momenti più toccanti  del film è quello in cui Nico, sulla soglia della transizione definitiva, e sua moglie Chiara parlano del loro passato, delle difficoltà affrontate e superate con le rispettive famiglie e la comunità a cui appartengono, e dell’incertezza per quello che li attende dopo l’operazione). In quest’arco che va da un inizio ad un altro inizio restano sempre e comunque le immagini a evocare come se fossero il preambolo di un immaginario futuro la dimensione visiva e sonora  (e vanno intercettati e ascoltati i silenzi della natura e dei luoghi appartati in cui si rinchiudono, per rivelarsi, i quattro protagonisti) di una condizione continuamente in fieri, con una menzione speciale per la grazia e la coordinazione delle danze swing di Raff (il ballo come altrove dove gli opposti  possono ballare e scivolare armoniosamente l’uno nell’altro) e per la sequenza, fluida nel senso letterale del termine, in cui Nico distrugge la sua carta d’identità femminile , di quelle ancora cartacee, dentro l’acqua del lavandino; un gesto che è affogamento rituale prima e battesimo laico poi di una nuova identità, oppure di un’identità che c’è sempre stata ma che era sepolta da sovrastrutture e da categorie esterne e imposte, e non ancora liberata in una spontanea fusione tra le pulsioni della carne e la rappresentazione precisa di pensieri e parole.

Nel riassestare questo slittamento, Nel mio nome, prodotto e sponsorizzato dal più conosciuto e popolare degli attori trans, l’Elliot Page che fu Ellen (Juno, Inception), lascia un segno, la sedimentazione di un affetto e di una riflessione, una lezione di accoglienza e amore. Ma soprattutto non sacrifica completamente le qualità estetiche e narrative di cui parlavamo all’inizio nel nome di una giusta causa e ci riporta alla fine, in una struttura circolare rispetto alla domanda principale, al cosa e soprattutto al come raccontarlo. Perché tutte le forme e le storie del mondo possono essere contenute nel nostro nome e perché , come diceva Montaigne, bisogna prestarsi agli altri e donarsi a se stessi.

In sala il 13-14-15 giugno


Nel mio nome  Regia, sceneggiatura e fotografia: Nicolò Bassetti; montaggio: Desideria Rainer, Marco Rizzo;  interpreti: Leonardo Arpino, Raffaele Bardo, Andrea Bagno, Niccolò Sproccati;  produzione: Elliot Page, Nicolò Bassetti, Lucia Nicolai, Marcello Paolillo; origine : Italia, 2022; durata: 93′; distribuzione: I Wonder Pictures.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *