Uscì domani: Il Tetto di Vittorio De Sica

Non era un Paese per poveri, l’Italia del 1956. Come non lo era quella del 1948: l’Italia di Ladri di biciclette, sofferta da Antonio e Bruno e Ricci. Non lo era l’Italia del 1951, quella di Umberto D. e non lo è nemmeno oggi, l’Italia, un paese per poveri. Dove però uno come Vittorio De Sica non c’è più, e la sua capacità di raccontare il dramma sociale – che è sempre anche umano – di persone anonime, profondamente vere, il cui affanno ci passa accanto silenzioso, non è che struggente nostalgia. Viva mancanza.

C’era però, il grande regista italiano, con la sua capacità di emozionare fino alle lacrime, con la sua abilità di tocco unica, meravigliosa, in quella metà di anni Cinquanta italiani – il 1956, appunto – in cui è ambientato Il Tetto: gioiello, anche se meno brillante dei citati, che uscì domani, sessantotto anni fa, il 6 ottobre 1956.

Da acuto osservatore e narratore con la macchina da presa, il grande maestro, qui, come altre volte sostenuto dai muscoli creativi di Cesare Zavattini, passa dalla miseria del dopoguerra a un’altra più celata, in qualche modo silenziosa, oscurata dalle prime grandi luci delle città, dalle micce in fase di innesco dell’imminente boom economico. Eppure lo stesso, l’Italia, e certamente anche la Roma fotografata da Il tetto, è quella di uomini e donne invisibili, vite non più tra le macerie (anche morali) dell’immediato dopoguerra, ma vaganti, se non perdute, nella crescita ipertrofica della capitale, con tanti umili ai suoi margini, per quella mutazione antropologica, con la rapida fine della civiltà contadina, di cui si accorse bene Pasolini.

Parla di questo Il tetto, di nuovi quartieri in lievitazione, di calce e mattoni, di emigrati interni che nella città eterna reclamano un dimesso diritto a sopravvivere, e possono arrivare, come accade a Natale (Giorgio Listuzzi) e Luisa (Gabriella Pallotta), a tirare su, al pari di altri teneri smarriti come loro, rozze file di mattoni coperti da un tetto alla buona, dove possono, dove la città sta momentaneamente finendo, magari all’umido ridosso dell’Aniene.

Una (poco più che) baracca, da ammirare con trattenuto ma sollevante sorriso, con la gioia che sgorga dalla fine di un incubo. Una casetta barcollante, prosaicamente favolistica, dentro la quale afferrare la dignità, fare strada umilmente e crescere un figlio.

Non basta: se questi due dolci e sostanzialmente innocenti sposi vogliono davvero avere un tetto stabile, dopo che hanno vagato inutilmente, in un vagare neorealistico, fatto di impedimento e amarezza, alla ricerca di un posto dove stare (anche allo scalo di San Lorenzo), devono tirarlo su nell’arco di una notte. Altrimenti i rappresentanti delle istituzioni, con le loro divise, i loro fischietti e i loro taccuini, ordineranno che quel mucchietto di pietre ancora bagnate, debba essere soffiato via.

Natale e Luisa ingaggiano la loro lotta contro il tempo, lungo una notte umida dentro la quale la comunità ribadisce il suo valore, e anche i parenti, seppure impegnativi, scontrosi, burberi e complicati, dicono che alla lunga la famiglia conta eccome. Questa tensione, con i due ragazzi spauriti e speranzosi, caratterizza la seconda parte di un film che nelle prime inquadrature mostra la costruzione della chiesa di Don Bosco, gigante e ancora oggi possente. Bianca, luminosa. Acme del quartiere Tuscolano: quella fungaia piatta ed enorme di cemento, cresciuta velocemente intorno agli anni di Il tetto, a Sud del centro di Roma. Tra San Giovanni e le colline dei castelli, col parco degli acquedotti su un lato che calma l’eruzione grigia, l’attenua e la contrasta, la doma con la sua invincibile bellezza.

È un quartiere simbolo, il Tuscolano, dello stravolgimento della capitale e dell’Italia tutta. Vedremo, non a caso, la razionalista e luminosa chiesa di Don Bosco all’inizio di La dolce vita (1960). La incontreremo con L’audace colpo dei soliti ignoti, dello stesso anno, ed entreremo al suo interno con l’Anna Magnani di Mamma Roma, 1962, da Pier Paolo Pasolini. Osserveremo i tanti palazzi della nuova Roma che le sorge intorno in quell’altro gioiello, 1967, che è Il padre di famiglia di Nanni Loy. Persino nel meraviglioso Fantasmi a Roma, favola sociale di Antonio Pietrangeli.

Ma già nel 1956, prima di tutti questi titoli, De Sica zooma sul movimento di due ragazzi che cercano pace in una giungla senza tradizione, attraverso il tema archetipico di un alloggio, mentre la televisione, sulla strada, parla dell’uomo sulla luna. Contrasti.

Il regista li pedina con affetto, anche se con un pizzico in meno di incisività rispetto alla tensione costante dei capolavori citati in apertura. Ma non è che siccome c’è stato il neorealismo duro e puro, con finali pugni allo stomaco, un pizzico di morbidezza, un briciolo di speranza sia sinonimo di un abbassamento della guardia e quindi di smielata bonarietà.

Se il cinema è figlio dei suoi anni, quel finale, per altro solo relativamente positivo, nel quale la guardia potrebbe andarci giù pesante e invece un occhio, non due, lo chiude, può essere figlio di un tempo in cui ai problemi, di cui il film parla (altrimenti non avrebbe avuto senso un soggetto del genere), si associa l’euforia latente per un Paese che sta entrando in una fase nuova.

Il film, in qualche modo di un neorealismo arrosato, il che non è necessariamente un difetto, però, rimane sostanzioso, nutriente, perché non dobbiamo correre il rischio di sminuire il valore della speranza. La speranza non è rinuncia, né debolezza; è il suo contrario semmai, e se il dolore di Ladri di biciclette o di Umberto D. si attenua tra le mura e le tegole di Il tetto, va bene lo stesso.


Il Tetto Regia: Vittorio De Sica; sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia: Carlo Montuori; montaggio: Eraldo Da Roma; musica: Alessandro Cicognini; interpreti: Giorgio Listuzzi, Gabriella Pallotta, Gastone Renzelli; produzione: Vittorio De Sica, Marcello Girosi, Titanus; origine: Italia, 1956; distribuzione: Titanus.

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