In attesa di capire come siano morti il 95enne Gene Hackman e sua moglie Betsy Arakawa, trovati cadaveri nella loro casa di Santa Fe insieme al cane (per ora si esclude l’omicidio), non resta che piangere questo monumentale e carismatico attore californiano, uno degli ultimi rimasti della vecchia Hollywood. S’era trasferito in New Mexico per stare lontano da Los Angeles e scrivere romanzi western, un po’ alla maniera di Louis L’Amour. Uno degli ultimi si chiamava Payback at Morning Peak, un titolo che sembra già pronto per un film. E magari non era un caso che fosse ambientato proprio nel New Mexico.
Stessa età dell’amico Clint Eastwood, il regista che gli fece vincere il secondo Oscar nel 1993 con Gli spietati, Hackman sfoderava negli ultimi tempi una barba bianca da grande vecchio e un fisico molto smagrito, ma in realtà non si sentiva affatto in pensione, nonostante voci sulla sua salute. Semplicemente non gli andava di interpretare parti da “great-grandfathers”, da grandi nonni insomma: l’aveva confessato nel 2011 in una spiritosa intervista a “Time”, nella rubrica “10 Questions”, firmata da Belinda Luscombe.

In realtà Hackman offriva un dettaglio in più, pure divertente, a suggerire come i tempi fossero cambiati, non solo per lui. Rivelava che a Santa Fe vedeva spesso passare i camion e le roulotte delle troupe cinematografiche. Da quelle parti si girano molti film.
«Ogni tanto mi piacerebbe andare a scambiare quattro parole con qualcuno, ma mi astengo. L’ultima volta che l’ho fatto una giovane assistente di regia stava pilotando il traffico in un vicolo. Le ho chiesto se assumevano qualche figurante. Mi ha risposto: “No, mi dispiace signore”». Troppo giovane, la fanciulla, per riconoscere il brutale poliziotto Popeye Doyle di Il braccio violento della legge, il tormentato spione di La conversazione, il cowboy crespuscolare dell’epico Stringi i denti e vai, l’idealista fotoreporter di Sotto tiro, il rude agente federale di Mississippi Burning, il presidente canagliesco e sessuomane di “ Potere assoluto, solo per dirne alcuni.
Del resto, l’uomo non sembra troppo soffrire. Nel 2004 confessò in tv a Larry King di essere praticamente disoccupato. Il suo ultimo film, una commediola di Donald Petrie intitolata Due candidati per una poltrona dove fa un ex presidente al quale propongono di fare il sindaco di una cittadina del Maine e invece perderà, risale proprio a quell’anno. Poi nulla. Pensare che il millennio era cominciato bene: con Heartbreakers – Vizio di famiglia, Il colpo, I Tenenbaum, Dietro le linee nemiche, La giuria.

In fondo qualcosa del genere era successo a Sean Connery, sempre classe 1930. Nel 2003, dopo aver girato l’invedibile La leggenda degli uomini straordinari, l’ex 007 decise di chiuderla lì, con un semplice annuncio. I soldi non gli mancavano, e forse il cinema aveva smesso da tempo di riscaldare i suoi pensieri. Per entrambi sembra valere il detto: «Alcuni attori invecchiano, altri maturano». Connery aveva saputo intonarsi allo scorrere del tempo senza ricorrere, come Robert Redford o lo scomparso Paul Newman, alla chirurgia plastica, accettando i segni dell’età, pure divertendosi a spiazzare il pubblico.
Certo il Gene Hackman che tutti preferiamo è quello d’azione, tosto e roccioso, dai metodi spicci, dotato di un certo sarcasmo, che sia sbirro, soldato, ladro, sceriffo o avvocato non importa. Pur avendo studiato insieme a Dustin Hoffman, di sette anni più giovane, alla californiana Pasadena Playhouse, Hackman sullo schermo non esibiva mai il sacro fuoco della recitazione, si faceva scivolare addosso i personaggi, anche quelli moralmente esecrabili, con naturalezza grintosa, un po’ alla maniera di Robert Duvall, di solo un anno più giovane. Dovunque lo metti, sta bene. Anche nei film peggiori, e ce ne sono tra gli ottanta girati, l’attore porta una presenza che lascia il segno, un mix di autorevolezza, carisma e ambiguità. Pure una notevole fisicità. Merito della stazza, era alto 1 metro e 88 centimetri, del naso importante, di quello sguardo tagliente, della voce ruvida ben restituita in Italia dai due doppiatori ufficiali, Sergio Fiorentini e Renato Mori (ma la sua era era stupenda).
E certo la vita piuttosto movimentata avrà contato: a sedici anni si arruolò nei Marines finendo in Cina e al suo ritorno negli States collezionò una serie infinita di lavori umili. Il peggiore dei quali lo ricorda proprio a “Time”: «Fui assunto, insieme ad altri quattro ragazzi, per pulire le poltrone e gli arredi di pelle nel grattacielo della Chrysler. Sempre di notte, un incubo».

Sarà anche per questo che odiava girare di notte o alzarsi all’alba. Meglio scrivere romanzi di ambientazione western. Payback at Morning Peak era il quarto, dopo Escape from Andersonville, Justice for None e Wake of the Perdido Star. L’incipit era intonato al cinema violento che ha reso famoso l’attore-scrittore. Pensate: tornando a casa, il diciassette protagonista, Jubal, trova la madre morta, deve sparare al padre che sta bruciando vivo atrocemente e prova a salvare la sorella appena stuprata. «Volevo che Jubal sprofondasse in un buco nero, in modo da avere a disposizione 300 pagine per farlo uscire da lì. Magari ho esagerato un po’, ma era funzionale a risolvere il dilemma» spiegò a “Time”.
Dettagli curiosi rivelatori dell’uomo: Hackman confessava di non rivedere mai i suoi film in tv e di non ricordare dove fossero finiti i due Oscar vinti. Per qualsiasi altro divo hollywoodiano avremmo parlato di civetteria senile. Con lui no.

E’ stato un grande e resterà’ nella storia.