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Voto
Di fronte a Cinque pezzi facili (Five Easy Pieces, 1970) – un’opera così importante secondo diverse prospettive, tra cui quella per la storia del cinema americano come anche per la prima e vera consacrazione di un attore assoluto come Jack Nicholson (che l’anno prima era stato uno dei protagonisti del film-manifesto Easy Raider, e a ben vedere ritorna l’aggettivo “easy”, take it easy?) – è possibile scriverne avendo un ventaglio esteso di punti di partenza. Chi qui si accinge a farlo, ha avuto la fortuna di rivederlo, nella sua recentissima copia restaurata, nel fantastico scenario serale de “Il Cinema Ritrovato” in Piazza Maggiore. La copia è perfetta, i colori sono nitidi tanto da sembrare che vengano giù dallo schermo smisurato su cui è stato proiettato, il suono risulta di un effetto eccezionale. Che incredibile spettacolo!
Il personaggio di Bobby (Jack Nicholson) fa parte di quella significativa galleria di figure che alberga a pieno titolo nelle storie della cosiddetta “New Hollywood”, di cui l’essenza può essere individuata nella controcultura statunitense tipica dell’epoca (fine anni ’60-fine anni ’80). Cresciuto in un contesto agiato e borghese (bene fissato nelle foto di primi piani di famiglia, tutte belle e bene esposte sulle pareti della casa paterna), avviato sin da piccolo agli studi musicali (come, dall’altronde, tutti i componenti dei suoi familiari), Bobby matura durante la prima fase dell’età adulta come un rifiuto di tutto ciò che ha imparato e va alla ricerca di nuovi terreni dove provare a metter radice. Da una parte, il personaggio di Bobby può essere letto come quell’individuo che sperimenta il “come si diventa ciò che si è”, ovvero che vive a proprie spese quel “dimenticarsi”, quell’obliare se stessi tipico del pensiero europeo (abbastanza francese in verità) e soprattutto della prassi teatrale europea (più italiana, si pensi a Carmelo Bene) che tende alla nota destrutturazione della nozione di “soggetto”. Dall’altra tutto ciò apre all’inquietudine (che si trasforma continuamente a fasi alterne in smania, in angoscia, in turbamenti interiori), al “falso movimento” relativo al suo vagare esistenziale di cui Bobby soffre senza trovare pace. Qui l’incontro con Catherine (Susan Anspach), la compagna di suo fratello Carl, potrebbe essere per lui l’occasione per trovare finalmente un equilibro. Ma anche questa occasione risulta essere non positiva. Catherine, quando Bobby ritorna nella casa di famiglia (perché il padre è molto malato), gli chiede di suonare qualcosa per lei. Bobby non si tira indietro ed esegue una composizione che suonava da bambino e che, a suo dire, gli veniva meglio allora. La freddezza con cui Bobby tratta se stesso e il sentimento invece vibrante che Catherine averte dentro di lei dopo l’esecuzione rappresentano le due note stonate del loro incontro. In fondo il distacco emotivo di Bob, che quasi si presenta come indifferenza, è a metà tra l’essere serio (ovvero profondamente sentita) e il nascondimento (cioè la non volontà nel trovarsi a vivere nuove emozioni). “Paura d’amare” probabilmente o, meglio, il non riuscire a saper scegliere chi si è. E dunque quel “come si diventa ciò che si è” si dipana in un nulla di fatto. Forse sta qui una possibile chiave di lettura del personaggio che Nicholson incarna magnificamente.

Un’altra sequenza magistrale dell’opera è il suo colloquio-monologo col padre, prima di decidere definitivamente di andare via per l’ennesima volta. Il padre non risponde perché malato, ma in verità allo spettatore qualche dubbio sul fatto che il padre quasi non voglia parlare sale. Lì vanno in scena, per l’unica volta nel film in modo sano e reale, le incongruenze di Bobby tra timore e tremore, tra l’audacia di superare se stesso e il rimanere lì gettati per terra come uno scarto. Quel suo flusso di coscienza liberatorio che esprime daventi agli occhi del padre alla fine tanto liberatorio non è. In tutto questo nasce un attore, che individuiamo fino a Shining e oltre. Il gran finale di questo, quella scena nella toilette dell’area di servizio con lui di fronte allo specchio che sembra non sapere “quali pesci prendere” è l’immagine sempre ritrovata di Nicholson in ogni suo film da lì in poi. Come, dunque, non concludere con le parole di Peter von Bagh a proposito di questa pellicola e di Nicholson in particolare: “Da solo, affidandosi solo alle sue risorse, scopre un nuovo modo di recitare, una spontaneità mai vista che sembra recitazione senza copione. Altrettanto essenziali sono i silenzi, come quasi-meditazioni davanti allo specchio del bagno della stazione di servizio. Iniziano e finiscono nel vuoto”. Come non pensare appunto a Jack Torrance di Shining appunto, passando ovviamente per David Locke di Professione: reporter (The Passenger). È sempre stato il Mattia Pascal del cinema Nicholson, e rivedendo questo film di Rafelson, oggi più che mai in questa splendida copia, ne abbiamo la conferma visiva decisiva.
Edizione restaurata 2025, Bologna, Piazza Maggiore, la sera del 25 giugno 2025.
Cinque pezzi facili (Five Easy Pieces) – Regia: Bob Rafelson; soggetto: Bob Rafelson, Adrien Joyce; sceneggiatura: Adrien Joyce; fotografia: László Kovács; montaggio: Christopher Holmes, Gerald Shepard; musica: Iman Amar, Ana Valladares, Guillermo Briales; scenografia: Toby Rafelson; costumi: Bucky Rous; interpreti: Jack Nicholson (Robert-Bobby Eroica Dupea), Karen Black (Rayette Di Biagio), Billy Green Bush (Elton), Susan Anspach (Catherine Van Oost), Fannie Flagg (Stoney), Sally Struthers (Betty), Marlena MacGuire (Twinky), Richard Stahl (ingegnere di registrazione), Lois Smith (Partita Dupea), Ralph Waite (Carl Fidelio Dupea), William Challee (Nicholas Dupea), Lorna Thayer (cameriera), Helena Kallianiotes (Palm Apodaca), Toni Basil (Terry Grouse), John P. Ryan (Spicer); produzione: Bob Rafelson, Richard Wechsler per Five Easy Pieces Productions, BBS Productions; produttore esecutivo: Bert Schneider; origine: Usa, 1970; durata: 96 minuti.
