Nel cuore della stagione teatrale italiana 2024/2025, è uno spettacolo sobrio, tagliente e profondamente umano a imporsi come l’evento teatrale dell’anno: è Sarabanda di Roberto Andò, andato in scena di recente al Teatro Argentina di Roma, tratto dall’omonimo film di Ingmar Bergman, l’ultimo scritto e diretto dal grande regista svedese nel 2003.
A firmare l’adattamento teatrale, con rigore e visione, è lo stesso Andò, che porta in scena un testo intimo e filosofico senza tradirne la natura cinematografica, ma traducendolo con straordinaria intelligenza nella lingua viva del palcoscenico.
Il cuore pulsante dello spettacolo è la prova magnetica di Renato Carpentieri, in un ruolo che diventa emblema del corpo e del pensiero bergmaniano: quello di Johan, anziano e ruvido intellettuale, alle prese con l’eredità emotiva di una vita interrotta e mai ricomposta.
Ogni attore è pienamente al servizio della parola e del gesto, in un’architettura recitativa misurata, fatta di silenzi, sguardi e pause che diventano parte integrante della drammaturgia. In particolare, Alvia Reale offre una Marianne di rara profondità emotiva: il suo confronto con Johan è il cuore emotivo e morale dello spettacolo.
L’ultimo film di Bergman, appunto Sarabanda nasce come seguito ideale di Scene da un matrimonio (1973), riprendendo i personaggi di Johan e Marianne trent’anni dopo. È un’opera crepuscolare, quasi un testamento. Il titolo — che allude a una danza barocca lenta e grave — è già un’indicazione del tono: una danza di anime ai margini della vita, della parola, del perdono.
Nel passaggio al teatro, Roberto Andò non cerca di imitare la regia bergmaniana, ma ne assorbe l’essenza: la tensione dialettica, la centralità della parola, il conflitto padre-figlio come campo minato dell’Occidente contemporaneo.
Il regista palermitano depura il testo, lo asciuga, lo rende ancora più necessario. Ne esce un affresco umano dove il dolore non è mai teatrale, ma profondamente reale, e proprio per questo coinvolgente.

La scenografia firmata da Gianni Carluccio è scarna, geometrica, fatta di pieni e vuoti, luce e ombra: una stanza mentale più che reale, dove il tempo sembra essersi fermato mentre le sue luci radenti tagliano la scena come ferite e i costumi di Daniela Cernigliaro richiamano un’eleganza fuori dal tempo. Il tutto costruisce un’atmosfera intima, austera, spogliata di orpelli, che consente al testo e agli attori di dominare.
La domanda è inevitabile: può il teatro superare il cinema? Nel caso di Sarabanda, la risposta è sì. Non perché “migliore” in senso assoluto, ma perché più vicino al nervo scoperto della relazione, alla fragilità del confronto umano. Il palcoscenico restituisce una prossimità insostenibile: il pubblico è lì, testimone ravvicinato di un dialogo che scava nell’anima. Ogni replica è un rituale irripetibile.
Nel film di Bergman, la camera fissa protegge. Nel teatro di Andò, la distanza è abolita: il dolore, la memoria, l’amore spezzato ci toccano, ci interrogano, ci espongono.
Sarabanda è molto più di un adattamento: è un’opera di regia e di pensiero, un atto d’amore verso Bergman e verso il teatro come luogo di confronto radicale.
Roberto Andò ha firmato un lavoro raro, necessario, che segna un punto alto nella sua carriera e nella scena italiana contemporanea. Uno spettacolo che non solo si distingue, ma che resterà. Come i grandi silenzi del maestro svedese. Come le parole che non sappiamo dire.
Sarabanda – traduzione: Roberto Zatti – Regia: Roberto Andò; scene e luci: Gianni Carluccio; costumi: Daniela Cernigliaro; musica: Pasquale Scialò; interpreti: Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi; produzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo; durata: 100 minuti.
Foto di Lia Pasqualino.
