Il primo ricordo che mi viene in mente pensando ad Adriana Asti, scomparsa il 31 luglio all’età di 94 anni, è legato ad un personaggio secondario eppure pennellato con la squarciante intensità e debordante umanità attraverso le quali Pier Paolo Pasolini sapeva far emergere dallo sfondo anche le figure più dimenticate e abbandonate. Il film era Accattone (1961) e la piccola prostituta dell’estrema periferia romana post rurale da lei interpretato, aveva un soprannome che appariva già come una promessa e una condanna, almeno in quel contesto di degrado: Amore, compagna di strada e di sopravvivenza di altre donne sfruttate più per inerzia e per vocazione nichilista che per crudeltà e cupidigia dai ragazzotti di un sottoproletariato sbandato e abbandonato a se stesso, tra i quali, appunto, Vittorio/Accattone/Franco Citti. Proprio di quest’ultimo Amore/Adriana sembrava essere nelle sue centellinate apparizioni una sorta di nemesi o di anticipatorio oracolo edipico, che gli pone davanti la degenerazione della miseria e il sussulto di dignità con cui quella vita, anche per una donna, poteva essere affrontata. Mi colpì la fierezza e la tragicità che risiedevano in particolare dentro quegli enormi occhi spalancati sul paesaggio di una città, filmata a metà strada tra la solidità senza tempo del rudere arcaico e i primi echi di una modernità urbana che azzerava i sogni in bisogni; e mi convinsi che lei, Asti, potesse esserne la testimone appassionata e sbigottita, schiantata e resistente. Adriana era di Milano e venne dunque doppiata in quell’occasione, da Luisella Visconti, anche se bastavano solo veramente quegli occhi a comunicare la fame che non poteva diventare ancora desiderio, perché stretta nelle morse di un Amore nominalmente evocato e sostanzialmente negato. È curioso poi che nello stesso anno avesse prestato lei la voce a Claudia Cardinale per interpretare un memorabile ruolo femminile, l’Aida de La ragazza con la valigia di Mauro Bolognini, abusata, ferita, ingannata e comprata dagli uomini, in un andirivieni di strafottenza e dolcezza, di cura e di umiliazione, fino allo smarrimento amaro dell’addio. Mi sono sempre chiesto come sarebbe stata Aida interpretata voce/volto da Adriana, nonostante l’esplicita, selvaggia e fosca sensualità di Cardinale ne commisurasse bene la presenza tragica sullo schermo.

Certo, Adriana avrebbe avuto la sua centralità appena poco dopo, con un personaggio diametralmente opposto ad Amore, per motivi di appartenenza geografica e di status sociale. Gina, la zia sposata che viene da Milano nella Parma sognante e fremente di Prima della rivoluzione (1964), forse la più personale tra le opere di Bernardo Bertolucci, il quale tra le altre cose traslò dentro quel film, elaborando l’impronta ancora fumante lasciata dalla Nouvelle Vague, l’amore per Adriana, facendone, in parte e godardianamente, anche un documentario su di lei. La bellezza e la sensualità di Gina sono amplificate non solo dallo sguardo innamorato di Bertolucci, ma dalla capacità di usare movenze, espressioni, silenzi, stupori e tremori che Asti porta con naturalezza e semplicità, e quel picco di imperfezione, di sbavatura, di essere cosi calata nel quotidiano, tangibile e sfuggente nella ricerca di senso perseguita dal protagonista Fabrizio, borghese dilaniato tra le pulsioni della militanza politica e del sentimento moroso e la cronaca di una crisi esistenziale e intellettuale annunciata. Un campo di battaglia dove Gina è destinata ad andarsene nella disperata matrice mélo di quell’incontro breve, lasciando un segno sulla pelle e sul cuore, nelle rincorse e negli abbracci con quel ragazzo che non ne può possedere e contenere le vitalità ( e che anzi arriva a ridurla nei mille pianti di una nevrosi). È curioso poi che l’altra rappresentazione che mi sovviene con più insistenza del corpo attoriale di Asti, dopo dei preludi talmente fitti e densi, è quella offerta in un film sicuramente minore della fase terminale di Vittorio De Sica, Una breve vacanza (1973), il tentativo stentoreo, per quanto onesto, di coniugare le istanze sociali di un derivativo neorealismo con quelle più commerciali del dramma sentimentale. Asti, che per quasi tutti gli anni ’70, almeno al cinema, apparirà in ruoli di co-protagonista o caratterista di spessore (tra gli altri, Metti una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, Ludwig di Luchino Visconti, L’eredità Ferramonti e Gran Bollito di Mauro Bolognini) disegna con un ricchezza di tonalità che passano dalla commedia alla tragedia, dalla spavalderia alla fragilità, dall’operetta alla tragedia, la figura della signorina Scanziani, costretta a reprimere l’entusiasmo canoro nella mestizia di una malattia terminale, e sullo scenario mortifero di un sanatorio di montagna per tubercolotiche (differenziate tra paganti e mutuate). E più che una Florida Bolkan abbastanza spaesata e fuori luogo, nella parte di un’operaia calabrese spedita dal marito a curarsi in quel luogo di risanamento e autocoscienza, quello che mi emozionò e commosse fu proprio la varietà sonora ed espressiva di Asti, lo spogliarsi gradualmente del costume sociale di scena e rimanere nuda, nella sua minutezza luminosa in grado di abbagliare delle immagini opache o offuscate come erano diventate quelle di De Sica, per raccontare non più la fiamma accesa di Gina ma gli ultimi bagliori di una stella mancata. Ad accomunare queste interpretazioni e farle convivere nello spazio polarizzato del suo essere attrice di carne e sangue, con la distanza di un immaginario altrove sempre dietro l’angolo della prossima scena, c’è ancora la scintilla e la fiducia di uno sguardo che è intimo, caldo, prossimo nostro. E che in un istante è capace di farsi distanza, secchezza, severità.

Cosi nella retorica dei lutti familiari, quell’abbandono straziante, agonizzante, da madonna pasoliniana anche nella posizione, della madre de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, che piange senza lacrime il prediletto figlio morto suicida (Alessio Boni), del quale aveva intuito empaticamente la tragedia interiore, è uno dei punti più alti e nucleari dell’arte recitativa, fatta di pensiero e di emozione, di scavo psicologico e uscire fuori di sé, portata da Asti al cinema. Come un altro momento, che ne dice la potenza impressionista nella brevità , ancora una volta in un film di Tullio Giordana, Pasolini, un delitto italiano (1995): quella professoressa che davanti ai commenti rabbiosi e ignoranti rivolti da un gruppo di giovanissimi proletari contro la memoria di P.P.P., recita loro i versi che il poeta friulano dedicò ai ragazzi di vita. Raramente, e forse mai, ho ritrovato al cinema la parola di Pasolini pronunciata con una simile compostezza e commozione. Ma, come direbbe Gina, visto che il tempo non esiste, possiamo continuare ad aspettare che Adriana torni per raccontarci una favola, recitarci una poesia o cantarci una nenia. Chiedendole perché ci ha fatto aspettare tutto questo tempo per dissetarci di nuovo.
