Teatro: Il dolore delle figlie. Ifigenia di Eva Romero al Teatro di Ostia Antica. Il ritorno del mito, il presente della tragedia

Nell’ambito della prima edizione del “Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato”, Ifigenia per la regia di Eva Romero si impone come una delle proposte più potenti e raffinate dell’intero cartellone. Allestita nello spazio sacro e archetipico del Teatro Romano di Ostia Antica (il 25 e il 26 luglio 2025), l’opera – frutto di una coproduzione internazionale tra Teatro di Roma e il celebre Festival di Mérida – ha saputo restituire, con forza sorprendente, l’attualità bruciante del mito euripideo, al tempo stesso rispettandone la struttura classica e destrutturandone i codici scenici.

L’adattamento firmato da Silvia Zarco non si limita a mettere in scena Ifigenia in Tauride di Euripide, ma la fonde drammaturgicamente con altri materiali mitologici, in particolare con la figura di Polissena, creando una doppia parabola di sacrificio e silenzio femminile. Le due giovani protagoniste non sono solo eroine tragiche: diventano corpi politici, simboli universali delle donne violate, delle vittime del potere patriarcale, della guerra, del dovere familiare e religioso.

La scelta di Eva Romero è radicale e poetica. L’opera si presenta come una sorta di rito contemporaneo. Gli elementi scenici sono essenziali ma densi di senso: un fondale traslucido, una pedana sabbiosa, pochi oggetti rituali, luci fortemente direzionali e gesti coreografati con misura. La parola è sacra, la musica è minima, i silenzi sono densi. Tutto converge verso un linguaggio performativo non naturalistico che fa risuonare il tempo antico nel corpo presente.

La dimensione visiva – curata con rigore e simbolismo da Elisa Sanz e Rubén Camacho – trasforma l’anfiteatro romano in un non-luogo sacrificale, in cui le voci delle figlie e delle madri risuonano tra la pietra e la polvere. La scena non cerca l’archeologia del mito, ma la sua risonanza emotiva, la sua eco archetipica. Il tempo si sospende, la narrazione diventa flusso poetico, ogni azione un atto necessario.

Il vero centro emotivo della rappresentazione è il dolore taciuto delle donne. La regista sceglie di restituire alla tragedia classica il suo potenziale rivoluzionario, ponendo l’Ascolto e lo Sguardo come cardini della messinscena. Le attrici Laura Moreira (Ifigenia) e Nuria Cuadrado (Polissena) costruiscono due personaggi profondamente diversi, ma entrambi intensissimi: l’una assorta in un dolore sacro e dignitoso, l’altra ribelle, viva, ferita. La loro complicità scenica e l’intelligenza fisica del loro lavoro sono tra i punti più alti dello spettacolo.

Accanto a loro, María Garralón (Ecuba) e Beli Cienfuegos (Clitennestra) incarnano la dimensione generazionale della tragedia: madri mutilate dal potere, ambivalenti, amorevoli e disperate. I personaggi maschili (Juanjo Artero nel ruolo di Agamennone) non sono ridotti a figure bidimensionali, ma rappresentano comunque un sistema chiuso, sordo, che agisce in nome di valori che oggi appaiono tragicamente distorti: onore, patria, gloria, famiglia. Il contrasto tra il linguaggio del potere e quello della compassione è una delle tensioni più forti della regia.

Uno dei meriti maggiori dello spettacolo è la capacità di trasformare il mito in atto politico, senza retorica e senza forzature. Eva Romero non “attualizza” in senso didascalico, ma costruisce ponti simbolici tra l’antico e il contemporaneo. La voce delle protagoniste si fa eco di tutte le donne sacrificate nella storia: nei conflitti armati, nelle famiglie abusanti, nei sistemi che opprimono il corpo e la libertà femminile.

Il linguaggio scenico – fatto di gesti trattenuti, parole cesellate, sospensioni, canti sussurrati – costruisce una tensione profonda che travalica la trama e si radica nello spettatore. Il dolore non è mai mostrato con crudezza, ma suggerito, evocato, lasciato vibrare. Questa scelta registica amplifica la partecipazione emotiva e rende lo spettacolo un vero e proprio spazio di ascolto collettivo.

La lingua originale dello spettacolo è lo spagnolo, con sovratitoli in italiano. Una scelta audace, che però funziona. La distanza linguistica diventa elemento estetico, che amplifica il senso di straniamento e solennità. Il testo, nella sua traduzione poetica e intensa, restituisce con forza il trauma e la bellezza della tragedia greca.

Le musiche originali, rarefatte e ambientali, sono inserite con discrezione ma efficacia: non accompagnano, ma abitano. I momenti musicali non interrompono, ma sospendono il tempo e permettono alle emozioni di sedimentare. Il ritmo della drammaturgia è lento, ma mai statico: si ha sempre la sensazione che qualcosa di profondo stia avvenendo.

In un tempo in cui la memoria collettiva è fragile e spesso manipolata, Ifigenia di Eva Romero ci ricorda che il mito non è un racconto del passato, ma un codice vivo per interpretare il presente. Le parole di Euripide, riscritte con sensibilità contemporanea, ci parlano ancora, forse più che mai, di ciò che siamo e di ciò che potremmo essere.

Lo spettacolo, pur rigoroso e minimale, colpisce per la sua capacità di commuovere senza cercare l’effetto, di sollevare interrogativi senza offrire soluzioni, di restituire alla tragedia greca la sua dimensione più umana: quella di uno spazio rituale, collettivo, in cui dolore e bellezza convivono.

“Ifigenia” è teatro necessario. È poesia civile. È uno specchio oscuro dove guardarsi senza più veli.

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