Solomamma è il secondo film della regista norvegese Janicke Askevold, ma il suo primo di finzione. In esso si affronta la storia della giornalista investigativa Edith (Lisa Loven Kongsli), non però dal punto di vista della professione bensì per la scelta di avere dato vita ad una famiglia monoparentale. Infatti, 5 anni prima, si era rivolta ad una banca del seme, e da allora cresce un figlio da single, in una società che è spesso critica verso questo tipo di alternativa.
Oltre a occuparsi del bambino, una volta a casa tornata dal lavoro, deve prendersi cura anche della madre, che manifesta i primi sintomi di demenza senile, e che prima le era di aiuto, come tutte le nonne, per assisterla nei doveri familiari. Ad aiutarla come “babysitter”, troviamo l’amica Trine, che ha concepito la sua bambina con lo stesso donatore di sperma. Entrambe cercano su Google tutte le possibili malattie e “stranezze”, che i propri figli potrebbero ereditare geneticamente, in modo da poter capire meglio i loro figli.
Un giorno Trine rivela ad Edith di aver scoperto l’identità del padre biologico dei loro bambini, un brillante sviluppatore di videogiochi, finito più volte sui rotocalchi, di nome Niels, (Herbert Nordrum già ne La persona peggiore del mondo di Joachim Trier).
Curiosa per natura, la donna decide di cercare Niels con la scusa di un’intervista per la sua rivista. I due s’incontrano più volte e hanno modo di conoscersi e di creare un legame, seppur supportato dalle bugie della donna, che nasconde l’identità del padre al figlio e viceversa. Scoperta inaspettatamente da Niels, Edith verrà messa di fronte a una scelta e cioè se presentarlo o meno come il padre biologico del suo bambino. Nel primo caso, il figlio troverebbe una figura paterna di riferimento, ma questo stravolgerebbe gli equilibri della famiglia, che si è costruita giorno per giorno, nonostante la disapprovazione della madre.
Il viaggio verso la “decisione finale”, porta la protagonista nuovamente verso la libertà, perché sceglie di continuare a crescere il figlio da sola, dato che non è il legame biologico ad essere importante, ma l’appartenenza alla famiglia. Un giorno, spiegherà a suo figlio di conoscere il vero padre biologico e sarà lui, ora abbastanza grande, a decidere se vorrà o meno incontrarlo.
Solomamma di Janicke Askevoldi inizia con in testa un modello sociale tradizionale, quello della famiglia patriarcale, ma nello sviluppo della storia vuole farci riflettere sulla possibilità, sulla concreta fattibilità di poter far crescere un figlio solo a partire dell’etica della maternità. Al centro di questo film coraggioso e problematico nel miglior senso del termine, seguiamo, dunque, una donna coraggiosa, che ha deciso di lottare per le sue scelte, seppur alternative, restando sempre fedele a sé stessa e ai propri valori, nonostante i possibili giudizi moralisti del mondo esterno. Certamente un’opera degna di interesse.
Solommama (Id.) – Regia e sceneggiatura: Janicke Askevoldi; fotografia: Torjus Thesen; montaggio: Patrick Larsgaard; musica Kārlis Auzāns, Paulius Kilbauskas, Vygintas Kisevičius; scenografia: Mette Haukeland; interpreti: Lisa Loven Kongsli, Herbert Nordrum, Nasrin Khusrawi, Rolf Kristian Larsen, Celine Engebrigtsen, Trude-Sofie Olavsrud Anthonsen; produzione Rebekka Rognøy, Gary Cranner, Magnus Nygaard Albertsen per Bacon Pictures Oslo, Bacon Pictures, Mistrus Media, Dansu Productions, It’s Alive Films; origine: Norvegia, Lettonia/Lituania,/Danimarca/Finlandia, 2025; durata: 99 minuti.
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Il terzo lungometraggio del regista georgiano Alexandre Koberidze, Dry Leaf è addirittura più lungo del già torrenziale What Do We See, When We Look at the Sky? presentato alla Berlinale del 2021. Le riprese sono fatte a bassa risoluzione, non solo per una scelta “ideologica” lo-fi, ma perché l’idea del film è partita da un telefono del 2009, che a differenza degli attuali smartphone, faceva sparire dalle riprese tanti dettagli in un mare di pixel, dando modo alle persone la possibilità di ricostruire l’immagine mancante in propria autonomia.
La storia inizia con la scomparsa di Lisa, una fotografa ventottenne di un giornale sportivo, che è partita per fotografare i vari campi di calcio dei piccoli villaggi georgiani, lasciando una lettera in cui chiede di non essere trovata. Malgrado questo monito, il padre Irakli decide di prendere l’auto per cercare di rintracciare la ragazza in provincia. Nasce così un Road Movie, fatto di lunghe riprese paesaggistiche, ma Dry Leaf è anche un film “sull’invisibile”, a partire dal fatto che il compagno di viaggio di Irakli si chiama Levani, un figura di cui sentiamo solo la voce fuori campo, ogni volta che all’amico servirà un aiuto. Levani dà consigli semplici, che giungono puntualmente, quando il protagonista sta per allontanarsi troppo dalla strada per raggiungere la figlia. Tramite questa astuzia narrativa nasce la scelta del regista, di cosa far vedere e cosa nascondere allo spettatore. Durante le soste, Irakli incontrerà sia persone visibili, come i ragazzini che giocano a calcio, ma anche delle altre invisibili ma che gli parlano e gli suggeriranno la strada da seguire. Così, nei campi da calcio, ci troviamo di fronte a delle porte fatte con due o tre tronchi di albero, e che grazie alla fotografia del film diventano delle vere e proprie cornici sul paesaggio circostante.
Nonostante si vedano nel film parecchie foglie secche, il titolo fa riferimento ad uno dei più celebri giocatori della storia del calcio brasiliano Valdir Pereira, meglio noto con lo pseudonimo Didi (1928-2001) che eccelleva e aveva inventato la tecnica della “Folha seca” (appunto la “foglia secca”), un tiro diretto e carico d’effetto anche se di media potenza con cui il pallone prendeva traiettorie imprevedibili, lasciando il porterie spiazzato. Ed è questa una metafora o similitudine di quanto succede ai protagonisti di questo fluviale, forse troppo lungo film georgiano che partono senza una meta precisa, cambiando direzione in base ai loro incontri. Poi quando inizieranno a perdere la speranza, un misterioso evento offrirà loro un ultimo indizio, trascinandoli verso l’ignoto e riaccendendo in loro un debole barlume di speranza.
Dry Leaf (ხმელი ფოთოლი)– Regia, sceneggiatura e fotografia: Alexandre Koberidze; musica Giorgi Koberidze; interpreti: David Koberidze, Irina Chelidze, Giorgi Bochorishvili, Vakhtang Fanchulidze, Otar Nijaradze; produzione Luise Hauschild, Alexandre Koberidze, Mariam Shatberashviliper New Matter Films GmbH; origine: Germania,/Georgia, 2025; durata: 186 minuti.
