-
Voto
“La piscina era una piscina finché ci nuotavate”, così il voice over del (presunto) padre di Maryam, ragazza fuggita dall’Iran all’età di vent’anni e ora insegnante negli Stati Uniti, accompagna la visione di alcuni home movies che mostrano dei bambini esultanti in un gioco che pareva inesauribile, in ciò addensando tutto il dolore per il vuoto scavato dalla separazione forzata cui furono costretti intere generazioni allo scoppio della rivoluzione iraniana.
In concorso alle Giornate degli Autori, Past Future Continuous è un lungometraggio realizzato dagli iraniani Firouzeh Khosrovani e Morteza Ahmadvand, regista la prima e videoartista il secondo. Già con il precedente Radiograph of a family (2020), Khosrovani ci ha abituati a un modo stratificato di guardare alle immagini filmiche e ai loro rapporti. Un procedere che include tanto l’uso del footage, ma sottraendolo alla didascalia o al rischio della strumentalità oggettivante, quanto la costruzione di un racconto ibrido, tra documentario e finzione (qui la sceneggiatura è firmata dagli stessi registi) e tra riprese e materiale d’archivio, in tal modo rinnovando l’inutilità di ergere steccati o ricercare compiutezze (che non fanno parte dell’esperienza reale né di quella immaginaria). Modalità filmica, questa, a cui tanto più può conseguire un’esperienza spettatoriale inedita -disorientante e soggettivizzante- sia con la verità che con il tempo.
E quindi eccoci a ricordare e riguardare oggi Maryam (complici il sapiente uso del voice over e del footage), a quarantacinque anni di distanza, che nascosta in una pelle di montone e al seguito di un gruppo di contrabbandieri, e spinta in questo da un padre protettivo seppure lacerato, fugge da un Iran diventato invivibile per studenti e attivisti non allineati con le istanze, religiose e politiche, della rivoluzione del 1979. E ancora Maryam quando, poco dopo la pandemia e tramite l’aiuto di amici rimasti a Teheran, installa delle telecamere a circuito chiuso per sorvegliare i genitori, nel frattempo diventati anziani, nella casa di famiglia, in questo modo tentando, sempre più disperatamente, di controllare quello che accade e quello che potrebbe accadere.
Impossibile non rimanere coinvolti, e a tratti invischiati, in questi frammenti d’una autobiografia, allorché mentre essa tenta di trovare approdo in un orizzonte di senso possibile, la poetica del frammento consente ai luoghi e ai tempi tutta la libertà, processuale e relazionale, con cui poter recuperare immagini perdute e vissuti rimossi -inclusa la consapevolezza della rabbia che consegue a una scelta condizionata dalla paura e dall’odio. Ecco che in questo modo il rapporto con il tempo, sottratto alla linearità irreversibile, può attivarsi lungo le coordinate aperte e sorgive della compresenza e della simultaneità. Ma al tempo stesso sapendo bene, con Chris Marker, come ogni ricordo, in quanto interpretazione che lo riscrive, sia anche sempre oblio.
Nel dilemma, allora, chi guarda potrà scegliere di considerare la telecamera di sorveglianza come un dispositivo che non riuscirà mai a chiudere la vita in un’unica visione, satura e totalizzante, poiché –fuori cattura- rimarranno sempre degli spazi vuoti o mancanti. Spazi che magari saranno nell’out of joint del tempo dell’immaginario. Oppure che troveranno sosta e soglia nello sguardo minimo ed espanso del sorvegliato. In questa prospettiva (di una feconda ambiguità e fragilità, anche epistemologica, delle immagini), la stessa attribuzione incerta circa la provenienza degli home movies, e ancor prima delle immagini a circuito chiuso, alla famiglia di Maryam, ci suggeriscono che probabilmente gli intrecci tra le immagini che si susseguono e i diversi tempi del racconto siano più complessi di quelli riferibili a una sola autobiografia. Forse la bambina e la bellissima donna che vediamo apparire e scomparire tra i frame degli home movies di Past future continuous provengono direttamente dal lungometraggio precedente di Khosrovani.
In ciò, in questo confondere e mettere di nuovo insieme vite e storie, si avvera l’ipotesi di come il racconto cinematografico basato anche su immagini d’archivio non rappresenti mai esattamente il passato. Un passato dal quale, si immagina, Firouzeh bambina e la giovane mamma (che a quella stessa rivoluzione sappiamo, da Radiograph of a family, averci partecipato con un’istanza autentica ed emancipativa) stanno lì a guardarci ancora e allo stesso tempo in modo differente. In ciò producendo una possibile triplice istanza: rendere attuale quel riconoscimento a suo tempo negato in spregio alla vita e alla libertà di Maryam e di tante altre e altri; non nascondere in una ennesima rimozione (che non è la necessità alla base dell’oblio) quel passato che a tratti continua a crollare addosso ma che al tempo stesso disegna i margini di possibilità del futuro; leggere in contropelo la storia -le immagini non prestate a un uso edificante e autoritario- mostrando la dignità quotidiana delle persone e l’eccedenza di un comune che sa ancora valicare frontiere proibite per poter ritrovare i propri cari e il senso nuovo di una rivolta.
Past future continuous – Gli uccelli del monte Qaf – Regia e sceneggiatura: Morteza Ahmadvand e Firouzeh Khosrovani; fotografia: Mohamad Hadadi; montaggio: Solmaz Eftekhari; musica: Christophe Reza; produzione: Fifi Film, Antipode Film, ZaLab Film con Rai Cinema; origine: Iran/Norvegia/Italia, 2025; durata: 80 minuti; distribuzione: ZaLab Film.
.
