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Si fa davvero una gran fatica a capire come funzionino i meccanismi di censura in Iran, a meno che i responsabili non siano molto banalmente una manica di imbecilli. Brevissimo riassunto dei capitoli precedenti: nel 2022 Saaed Roustayi (1989) viene invitato a Cannes con il suo Leyla e i suoi fratelli, arrivato anche in Italia e di cui abbiamo parlato qui. Non solo il film non viene distribuito in Iran, ma Roustayi, rientrato in patria, viene arrestato e condannato (insieme al produttore) a una pena detentiva (si era rifiutato di apportare al film le modifiche “suggerite” dall’organo di censura). Dopo “soli” nove giorni di carcere, la pena viene commutata da un lato nel divieto di girare film per cinque anni e dall’altro nell’obbligo per il regista di frequentare un corso di regia al fine di “produrre film allineati agli interessi e alla moralità nazionali”. Ma anche questo provvedimento viene sospeso. E nel 2025 a Roustayi viene concessa l’autorizzazione non solo a girare Woman and Child (titolo internazionale, in Italia sarà Una donna e un bambino), ma anche di presentarlo, di nuovo a Cannes, di nuovo in Concorso. Un atto di magnanimità nei confronti del regista? Una scelta diplomatica nei confronti del cinema (del mondo) internazionale? Il caso? Boh, davvero difficile a dirsi. È vero che Roustayi sottosta all’imperativo censorio di mostrare le donne iraniane, anche in contesti privati con lo hijab addosso (quanto di più lontano dal più elementare rispetto di un dato di realtà: tutti sanno che, in contesti privati e familiari, nessuna donna si tiene ciò che comunemente si chiama il velo), ma aldilà di questo dato poco più che formale, il film presenta – al pari di quanto avveniva in Leila e i suoi fratelli, un quadro della società, della famiglia, dei rapporti di genere all’interno del paese che qualunque istituzione censoria avrebbe dovuto stoppare sul nascere.
Se nel film precedente Leila aveva a che fare con un gruppo di deficienti, tutti rigorosamente maschi, al centro di Woman and Child ci sono soprattutto relazioni fra donne: la protagonista Mahnaz (Parinaz Izadyar, bravissima), infermiera vedova con due figli, un ragazzino quattordicenne Aliyar (Sinan Mohebi), affetto – così almeno si direbbe in Europa e negli Stati Uniti, non so dire in Iran – da ADHD, deficit di attenzione con iperattività – e la sua sorellina Neda (Arshida Dorostkar) brava e obbediente. Madre e figli vivono insieme alla nonna (Fereshteh Sadre Orafaiy) e alla sorella più giovane di Mahnaz nonché dunque zia dei bambini Mehri (Soha Niasti). Questa specie di gineceo con il solo maschietto inquieto e turbolento a rappresentare l’altro genere sembra funzionare abbastanza bene, quando…
Quando succedono due cose, una apparentemente, ma solo apparentemente positiva, ovvero la decisione di Mahnaz di accondiscendere a una proposta di matrimonio, fattale dal “collega” Hamid (Payman Maadi, straordinario, ma non lo scopriamo adesso, era l’eccellente interprete del protagonista Nader in Una separazione, film per il quale non per caso vinse una quindicina d’anni fa l’Orso d’Argento a Berlino), un personaggio che fin dall’inizio non riesce a catturarsi le simpatie degli spettatori, anche perché, per le ragioni più varie, non dimostra grande attenzione, empatia con i figli di Mahnaz, ma in qualche misura neanche con l’auspicata promessa sposa. Per ragioni di opportunità la proposta di matrimonio che dovrà avvenire alla presenza dei parenti di lui, all’uopo giunti fino a Teheran, dovrà cancellare ogni traccia della presenza, anzi dell’esistenza dei figli, che, infatti, vengono scaricati dal nonno, il padre del primo marito (defunto) di Mahnaz, personaggio che fin dal suo look non lascia immaginare nulla di buomo. E proprio da qui deriva il secondo accadimento, tragico, che non si può rivelare ma che forse dato quel che si è detto fin qui, è possibile immaginare.
Si tratta di un luttuoso evento (che avviene dopo una cinquantina di minuti del film) che scatena – come non di rado accade nei film iraniani – una serie di indagini, reazioni a catena, accuse, risentimenti, rappresaglie e sensi di colpa a non finire che informano di sé i successivi ottanta minuti, con un ritmo, già convulso nella prima parte, che si fa vieppiù incalzante nella disperata e disperante ricerca della verità da parte della protagonista, tenace e risoluta, ma di continuo destinata a scontrarsi con una società retrograda assai poco incline a dare ascolto a una donna definitivamente catapultata in una condizione sociale (una madre vedova e sola, il fidanzato per ragioni che, di nuovo, non riveleremo si è defilato) di oppressione ed emarginazione che arriva, nei momenti più bui del film, a coinvolgere tutti i personaggi a qualche titolo coinvolti nella vicenda, persino gli affetti più stretti, ovvero le donne del gineceo.
A Mahnaz, questa specie di Michael Kohlhaas declinato al femminile, non resta a un certo punto che arrestarsi, bloccare la vendetta, chinare il capo di fronte alle barriere invalicabili della tradizione, ai meccanismi oppressivi di una società patriarcale, difficile da redimere, è questo il prezzo che la protagonista deve pagare per tornare a far parte, quanto meno, della comunità famigliare primitiva, l’unico nucleo, alla fine, inscalfibile, da cui eventualmente ripartire.
Sarà, forse, questa rassegnata sottomissione che sarà piaciuta alle autorità iraniane; ma prima di arrivare a tanto, il regista si serve di Mahnaz (che come tutti i personaggi presenti in questo film ha la sua bella parte di colpa), per mostrare una tal messe di ingiustizie, di meschinità, di violenza, talché il cedimento della protagonista finisce per diventare, almeno a tratti, una mera concessione alle aspettative delle autorità.
Insieme alla complessità psicologica del film, a una visione dialettica e sfumata delle relazioni umane, è da rimarcare una regia che vuole, comprensibilmente, farsi notare, alternando scene convulse con la camera a mano – che raccontano alla perfezione la claustrofobia della casa o ancora le molte sequenze drammatiche di cui soprattutto Mahnaz è protagonista in luoghi sempre affollatissimi – a panoramiche, invece, altamente estetizzanti, soprattutto dal basso verso l’ alto e poi di nuovo in basso, soprattutto dell’opprimente casamento, quasi un carcere, dove vive la famiglia, che rimarcano – semmai ce ne fosse bisogno – quanto gli individui siano piccoli piccoli, stritolati da tutto ciò che li circonda. Insomma: il regista ci sa fare, eccome. E sono moltissime le sequenze in cui, non solo per la presenza di Maadi viene spontaneo pensare a Ashgar Farhadi – e ad altri grandissimi del cinema iraniano che, va ribadito, non tradisce quasi mai.
Per vedere il film di Roustayi nelle sale italiane, dopo l’anteprima al MedFilm Festival, si dovrà aspettare ancora dei mesi, lo distribuirà Movies Inspired.
In sala a partire dal 25 febbraio 2026.
Una donna e un bambino (Zan o bačče/Woman and Child) – Regia e sceneggiatura: Saaed Roustayi; fotografia: Adib Sobhani; montaggio: Bahram Dehghani; interpreti: Parinaz Izadyar, Payman Maadi, Soha Niasti, Fereshteh Sadre Orafaiy; produzione: Saaed Roustayi Production, Iris Film, Goodfellas; origine: Iran/ Francia 2025; durata: 131 minuti; distribuzione: Movies Inspired.
