The Encampments – Gli accampamenti, il documentario statunitense di Kei Pritsker e Michael T. Workman racconta, con materiali esclusivi e interviste, l’ondata di attivismo studentesco nata dall’accampamento di solidarietà con Gaza alla Columbia University di New York e poi diffusasi in molte università negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Al centro ci sono i giovani attivisti – tra cui Sueda Polat, Mahmoud Khalil e altri organizzatori del movimento – che hanno rischiato espulsioni, arresti e repressione pur di chiedere il disinvestimento dalle imprese coinvolte nella guerra a Gaza. Il film mette a nudo pressioni politiche, conflitti d’interesse delle istituzioni accademiche, raid di polizia e campagne mediatiche, cercando di restituire dall’interno lo spirito degli accampamenti e ciò che spinge una generazione a ribellarsi e lottare per il cambiamento.
Il fenomeno dunque, inaugurato alla Columbia, comincia ad estendersi a macchia d’olio e trova consensi perché la causa è obiettivamente giusta, di facile comprensione, con obiettivi ben chiari. La fatica, che rasenta la negazione, delle istituzioni nel riconoscerlo denota una differenza significativa rispetto alle proteste sulla guerra in Vietnam che si svolsero sempre alla Columbia. Nonostante il documentario faccia raffronti tra i due movimenti, è necessario rilevarne le differenze cruciali: durante il periodo del Vietnam, sebbene i manifestanti fossero bollati come traditori e la repressione fosse violenta (si pensi a Kent State), la guerra stessa divenne palesemente perdente nel tempo, rendendo più agevole il ritiro delle istituzioni. Nel caso attuale, l’opposizione non è solo politica, ma è spesso legata a finanziamenti diretti alle università e a una narrativa geopolitica che coinvolge un alleato chiave. Questo rende l’istituzione molto più strutturalmente vincolata a resistere rispetto al Vietnam, dove il costo principale era politico, non necessariamente legato alle fondazioni e ai trust universitari. Di conseguenza, ci sono forze politiche ed economiche molto più minacciose che imbavagliano l’opinione pubblica, spingendo verso una contro-narrativa sempre più improbabile, inaccettabile e inadeguata. Un racconto che si rifiuta, o finge di rifiutarsi, di vedere che nessuno la beve.
Risulta interessante a noi “europei” constatare quanto le università americane siano strettamente colluse con sistemi di finanziamento diretti opachi e moralmente inaccettabili. Vediamo i responsabili politici, come la rettrice (l’economista Minouche Shafik) ed il sindaco di New York Eric Adams, sostenere posizioni reazionarie, ostili ed aggressive, nonché impegnarsi a propugnare una narrativa che spinge il concetto di antisemitismo fino a includere il solo proferire la parola “palestinese”.
E proprio a proposito di parole e linguaggio, si evince come quest’ultimo si sia depotenziato, disinnescato, creando un paradosso terminologico: se da una parte viene ripetuta ossessivamente la parola “genocidio” da parte degli attivisti (quando effettivamente un genocidio è in atto), dall’altra viene reiterata la parola “antisemitismo” (quando nei fatti ne è stato rilevato ben poco). Ma l’uso simultaneo e ossessivo di questi termini, seppur con diversi gradi di aderenza alla verità, provoca una saturazione che, nella percezione discorsiva dell’opinione pubblica, finisce per annullare entrambi, rendendo la comunicazione inattuabile e la realtà incomprensibile.
All’innegabile valore di denuncia che riconosciamo a questo documentario si associa una constatazione della natura retorica e ripetitiva del lavoro: non offre una progressione particolarmente avvincente, certe sequenze cercano del pathos a nostro avviso superfluo, le scene degli studenti che protestano cantando, ballando, gridando slogan o facendo comizi sono contenutisticamente povere, e tutto sommato le stesse cose potevano essere dette in non più di trenta minuti.
Emerge inoltre una certa parzialità nella scelta di mostrare quasi esclusivamente gli studenti, creando quel contrasto, retorico e mai realmente veritiero, tra generazioni: i giovani rappresentano la speranza, mentre gli adulti sono ormai corrotti e parte del sistema. Una visione limitata, dato che le proteste e gli accampamenti della Columbia University hanno coinvolto attivamente anche i docenti, un centinaio di insegnanti si è unito alle proteste subito dopo i primi arresti, e sebbene gli studenti siano stati il volto più visibile e il bersaglio principale delle sanzioni disciplinari, molti professori della Columbia hanno manifestato sulle gradinate del campus, opponendosi apertamente alla rettrice e fornendo un cruciale supporto politico, intellettuale e morale alla protesta.
In sala dal 28 novembre 2025.
The Encampments – Gli accampamenti – Regia: Kei Pritsker, Michael T. Workman; fotografia: Kei Pritsker; montaggio: Michael T. Workman, Mahdokht Mahmoudabadi; produzione: BreakThrough News, Watermelon Pictures; origine: Stati Uniti, 2025; durata: 80 minuti; distribuzione: Revolver, Valtellina.
