Falling – Storia di un padre

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Al pari di molti film dell’ultimo biennio anche Falling, il debutto dietro la macchina da presa di Viggo Mortensen, ha risentito, in termini di distribuzione, del periodo sfortunato in cui è stato prodotto e girato, basti dire che la prima mondiale è avvenuta, a Sundance, nel gennaio del 2020. Peraltro Mortensen – ma per il suo ruolo di attore co-protagonista – era anche già stato candidato, fra gli altri premi, agli European Film Awards 2020, in grazia di una compartecipazione produttiva della Gran Bretagna (il premio lo ha vinto il suo semi-connazionale Mads Mikkelsen per Un altro giro  https://close-up.info/?s=Un+altro+giro).

Il titolo, in primis, e inoltre quanto si era letto in giro, prima di vedere il film, lasciava pensare che nell’anno in cui The Father (https://close-up.info/?s=The+Father) aveva fatto tanto parlare di sé e Anthony Hopkins aveva vinto l’Oscar, ci saremmo trovati di fronte all’ennesimo film sulla degenerazione cognitiva senile.

Restava da capire se più in direzione demenza ovvero Alzheimer conclamato, tanto più – anche questo si era letto – che la storia presenta una chiara matrice autobiografica, insomma Mortensen, autore esclusivo della sceneggiatura, racconta di sé e della propria famiglia. Non che questo non sia vero, ma certamente la degenerazione cognitiva di Willis Peterson (interpretato da vecchio da un eccellente caratterista del cinema americano, forse giunto in tarda età al suo ruolo più importante e migliore, ovvero l’ottantenne Lance Heriksen, e da giovane dall’attore islandese Sverrir Guonason, noto per aver interpretato il tennista Björn Borg nel doppio biopic Borg/McEnroe) è solamente uno degli aspetti e certamente non il prevalente di una persona, di un personaggio che un tempo si sarebbe definito un gran bel caratteraccio, per rimanere nell’ambito delle espressioni consentite.

Se proprio vogliamo trovare una tassonomia più precisa, volta a definire meglio, non già da vecchio ma da sempre, il personaggio, verrebbe da pensare, alla luce di una delle scene finali, in cui il padre si mette a fare le parole crociate e chiede aiuto al figlio (forse l’unica scena in cui il rapporto tormentatissimo dei due vive una piccola tregua) a un caso non certificato di iperattività, quello che tecnicamente si chiama ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività). Perché la condizione cognitiva di Willis subisce certamente una degenerazione nel corso degli anni, ma il film descrive in larga parte caratteristiche che erano già abbondantemente presenti nella sua vita antecedente, salvo poche e mirate eccezioni. Fin da giovane Willis è al centro di  relazioni disfunzionali praticamente con tutte le persone con cui ha a che fare a cominciare dalle due donne (la prima moglie che a un certo punto se ne va, e la seconda compagna, entrambe al momento in cui il film ha inizio sono morte) e dai due figli, il maschio e la femmina; fin dall’inizio Willis è una persona iraconda; fin dall’inizio Willis è un risentito uomo di destra che ce l’ha con tutte le minoranze. Tutto ciò lo apprendiamo, a poco a poco, grazie a una notevole serie di analessi, sequenze talora anche molto lunghe e non si capisce sempre raccontate da quale prospettiva, sequenze, invece, talora estremamente sintetiche, quasi come dei flash, dai quali s’intuisce lo spessore drammatico, i traumi scatenati da molti episodi del passato.

In tutto questo il conflitto privilegiato resta quello fra Willis e il figlio John, interpretato appunto da Viggo Mortensen. John vive in California ed è sposato a un altro uomo, l’infermiere Eric (Terry Chen); malgrado il padre in passato abbia fatto ben poco per meritare le sue attenzioni decide di prendersi cura di lui, addirittura concependo il proposito di trovargli una sistemazione in una casa accanto alla sua, di concerto anche con la sorella. In tutto questo John mostra di avere una pazienza angelica a fronte delle continue offese e intemperanze del padre che, ovviamente, non ha mai accettato l’omosessualità del figlio, che infama tutto e tutti e che è affetto da una marcata ossessione coprolalica.

Il problema del film è che questo conflitto di fondo, declinato fin dalle primissime sequenze, nel passato e nel presente, di fatto non decolla mai. Molto banalmente il film (con una buona fotografia e malgrado l’inesperienza anche con una buona regia, della recitazione si è già detto, a un certo punto c’è anche un cameo di David Cronenberg nella parte di un proctologo) descrive ma non racconta, la sceneggiatura non funziona per nulla, è come se per quasi due ore rivedessimo più o meno la stessa costellazione, senza sensibili cambiamenti e in fondo anche avvenimenti. Certo, ogni tanto capita anche di ridere, là dove le intemperanze e le offese di Willis sono talmente estreme da rasentare il grottesco, ma nell’insieme – malgrado il fatto che, in controtendenza rispetto ai film sulla degenerazione senile, venga di fatto a mancare per le ragioni suddette un elemento tipologico ovvero la commiserazione – Falling non è un film molto riuscito.

In sala dal 26 agosto


Cast & Credits

Falling–   Regia: Viggo Mortensen  ; sceneggiatura: Viggo Mortensen ; fotografia: Marcel Zyskind ; montaggio: Ronald Sanders;  musica: Viggo Mortensen;  interpreti: Viggo Mortensen (John), Lance Heriksen (Willis),  Sverrir Guonason (Willis da giovane),  Terry Chen (Eric); Laura Linney (Sarah); produzione: Schythia Films, Zephyr Films, Perceval Pictures, Ingenious Media, Lip Sync Productions, HanWay Films; origine: Usa, Canada, Gran Bretagna 2020; durata: 112’; distribuzione: BIM Distribuzione.

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