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Voto
Quali e quante forme può avere il reale? Sembrano essere queste le questioni che pone Real di Adele Tulli (alla sua opera seconda dopo Normal),un documentario che cerca una fusione e poi un distanziamento tra l’asetticità dello sguardo tecnologico e le pulsioni dei corpi desideranti che vi si muovono dentro, nella percezione straniante e continua dell’esterno e dell’interno della macchina ancora (per quanto?) attraversata dal fattore umano.
Non si tratta di affrontare l’argomento da una prospettiva ontologica che appare ormai superata nella multiforme frammentarietà delle identità, non è più tempo di chiedersi cosa sia la realtà e cosa non lo sia. E per essere ancora più precisi, il tempo nel film di Tulli, quello vissuto attraverso il fluire dei ritmi della natura o secondo le convenzioni create dalla società nell’era analogica delle lancette e delle ore, sembra non avere più peso; ogni segmento della nostra esistenza è messo in fila nello scorrere di una serie interminabile di cavi, filmati nella materialità e nella tangibilità delle grandi cabine adibite a fare da ricettori e trasmettitori del segnale in grado di farci rimanere sempre collegati, in rete, in campo. Paradossalmente proprio le immagini di come vengono assemblate queste lunghe protuberanze elettriche sono i momenti più “realistici”, passi il gioco di parole, di Real, che per il resto entra nel sistema di etero e auto rappresentazioni virtuali del web e ne ricostruisce il processo. Uno dei nodi intorno a cui l’apparato di cablaggio si aggroviglia infatti è proprio lo slittamento tra immagine originale e immagine duplicata, rappresentato nel passaggio tra persone/personaggi che si mettono in scena attraverso la pratica del cosplay (ovvero indossando costumi che richiamo ai caratteri del mondo fantasy o dell’anime) in scene/scenari dal vivo come Piazza San Marco a Venezia, trasfigurata nella dimensione ridotta, estemporanea, passeggera di un click, un selfie, un contenuto digitale.

Ma si tratta di una superfice o meglio di un involucro, perché il nodo ancora più aggrovigliato e doloroso è un certo vuoto che, senza moralismi o reticente (assenza di voce off e un racconto tutto sommato libero da forzature didascaliche) la regista tenta di andare a riprendere in fondo alle lacrime indotte, fasulle, naif, ambigue di ragazzi e ragazze influencer del disagio: un compendio inquietante di webcam che aprono uno squarcio sulla mercificazione totale non solo degli oggetti o della propria immagine, ma dei propri stati d’animo, fino alla depressione quasi suicida, magari annunciata e mischiata con nonchalance con un tutorial su come ci si trucca. Sembra di vedere l’ultimo frame delle adolescenti sperdute e stordite di Bling Ring (2013), un piccolo e acuto film di Sofia Coppola, nel quale le annoiate ragazzine della borghesia losangelina ancora si aggrappavano con le unghie e con le mani ai cuscini con impressa l’immagine di Paris Hilton per poter affermare una parvenza d’identità. Anche se già i colpi di pistola di quelle innocue furfanti (il film si ispirava all’eccentrico caso di cronaca di un gruppo di ragazze che avevano rubato degli oggetti dalle case di alcuni vip californiani) sparavano nel nulla di una notte dove cominciava a smaterializzarsi nel rinculo sordo di un caricatore il limite concesso per farsi vedere e mettersi in mostra, la sopportazione di quello che si può o che non si può fare.
Oramai, ci dice Real, siamo in un’altra dimensione data non solo dalla virtualità in quanto manifestazione di un certo stadio tecnologico; quelle ragazzine che volevano essere protagoniste attraverso le vite degli altri ( identificate con il possesso della roba privata delle celebrities ridotta a surrogato di un merchandising) hanno fatto di loro stesse il (s)oggetto del nevrotico bisogno di rispecchiamento in un altro sé, moltiplicato e amplificato dai mille occhi/camere dei social network. Una vertigine ancora più estesa visto che è impossibile quantificarne il numero e la durata. Un cosmo, estendibile da micro a macro, nel quale viene declinato l’assunto pirandelliano, che era però ancora legato all’essere e all’esistente, di uno, nessuno e centomila : una ragazza può dunque passare dal sentirsi partecipe nel quadrato della sua auto-ripresa di una comunità di individui che meditano e respirano simultaneamente (non è neanche più importante capire se ci troviamo nel periodo pre, durante o post covid) al filtro/finto disinibito di un possibile profilo porno su onlyfans; un’immagine quest’ultima che Tulli fa vedere dal di fuori, come l’ordinario di un qualsiasi set domestico multifunzionale.

Può accadere anche qualcosa di diverso sugli schermi penetrati nelle teste docilmente aperte di questa contemporaneità in maniera perforante, quasi come protesi cronenberghiane (eXistenZ, uno dei titoli più profetici del cineasta canadese, parlava di questo nel 1999) di un videogame senza più ruoli, missioni o ambientazioni per far transitare pulsioni e istinti repressi, per destrutturare il controllo e costruire un nuovo (dis)ordine, un loop senza fondo. Ora basta elaborare una simulazione senza scopo, una figura sovraimpressa e intercambiabile; la Croisette di un grosso circo tridimensionale, con l’accortezza, forse malriposta, di non perdere le coordinate del proprio spazio psichico in sogni e bisogni indotti, manipolati dall’implacabile calcolo dell’algoritmo. Anche da questa prospettiva, c’era stata un’ opera anticipatoria come Paprika-sognando un sogno (2006) del troppo presto compianto Satoshi Kon, in cui proprio il corto circuito tra onirismo e tecnologia era spinto alle estreme conseguenze, e la contaminazione tra i diversi livelli percettivi conteneva in sé il germe di una rivoluzione, anch’ essa forse solo simulata e annullata nella dissolvenza impalpabile di un ologramma.
Eppure le persone transessuali che si incontrano e si raccontano nel film, sotto le fattezze dei loro avatar hanno la possibilità di fare esperienza di se stesse in una lounge protetta e accogliente; una circostanza che però è anche privilegio ed esclusività, visto che gli uomini e le donne trans vengono poi discriminati, perseguitati, uccisi per le strade fisiche e calpestabili di città esposte e insicure. Un aspetto problematico che non è, o non vuole essere, approfondito, risolto in un ‘esposizione delle contraddizioni senza fratture visibili o sconcertanti. Si rimane tra l’osservazione piuttosto contagiata dalla fascinazione (quell’uso un po’ virtuoso del grandangolo) e la sensazione di assistere in vetrina alla disturbante messa in abisso della società dello spettacolo, nella quale siamo contemporaneamente, senza soluzione di continuità, performati e performanti. La freddezza compositiva, per quanto accurata, rischia di schiacciare l’elaborazione di una critica potenzialmente contenuta in ciascun frame; e anche la bella intuizione di far vedere un centro in Germania per la disintossicazione delle dipendenze dagli apparati tecnologici attraversato da presenze fantasmatiche alla ricerca di un corpo e di uno sguardo vis a vis rasenta un formalismo un po’ sterile nella sua esecuzione. Una visione imbrigliata talvolta nella visione che vorrebbe raccontare, ma anche una spirale che invita a volare e a precipitare in mezzo agli immaginari di una realtà alterata e artefatta, nello stesso modo in cui faceva Robin Wright con il trasformismo delle sue identità cinematografiche in The Congress (2013) di Ari Folman (ennesimo antesignano in cui proliferano gli avatar, il virtuale, l’ intelligenza artificiale).
Fino alla fine di un futuro che non è più prossimo ma che è già prossimità.
Presentato al Festival di Locarno 2024 (sezione “Cineasti del presente”) e in sala dal 14 novembre 2024.
Real – Regia e sceneggiatura: Adele Tulli; fotografia: Clarissa Cappellani e Francesca Zonars; montaggio: Ilaria Fraioli e Adele Tulli; musiche: Andrea Koch; produzione: Agostino Saccà per Pepito Produzioni, Luca Ricciardi, Laura Romano, Mauro Vicentini per Film Affair in collaborazione con Charlotte Uzu di Yes Films d’Ici; origine: Italia, 2024; durata: 94 minuti; distribuzione: Luce Cinecittà .
