Fino alla fine di Gabriele Muccino – Perché sì di Alessio Accardo. Perché no di Giovanni Spagnoletti

PERCHÉ SÌ di  Alessio Accardo ***(*) stelle  “In un momento senza precedenti nella storia dell’umanità, in cui tutto appare globalmente organizzato, pianificato, gestito sopra le nostre teste, i viaggi, un tempo avventure spontanee, sono ora ridotti a itinerari predefiniti low-cost da postare e condividere sterilmente sui social. Eppure, dentro di noi, sopravvive una parte antica e ribelle, che si oppone all’idea di vivere come spettatori passivi di vite e realtà altrui che mai saranno nostre”. Queste sono le parole che si leggono nelle note di regia del pressbook di Fino alla fine, l’ultimo film diretto da Gabriele Muccino. Leggendole ho ripensato alla grande sorpresa con cui, nei mesi scorsi, mi sono reso conto che Muccino, creatore di storie per lo più sentimentali, sul suo profilo Instagram si stava spendendo come un militante politico “agit-prop” per dare clamore alla tragedia di Gaza. Ora, non sono in grado di stabilire se tra questa apocalisse e le parole di cui sopra vi sia un qualche nesso causale, però è impossibile impedirsi di rilevare le profonde novità che rendono questo tredicesimo capitolo della filmografia mucciniana un oggetto diverso dai precedenti. E se il pressbook non fosse sufficiente, valgano come ulteriore indizio le dichiarazioni che il regista romano ha fatto durante la conferenza stampa della Festa del cinema di Roma, dove il film è stato presentato in anteprima: “L’umanità si è costruita sulla prevaricazione, la violenza è insita nella nostra natura per motivi di sopravvivenza, di difesa della famiglia, del territorio. Siamo degli assassini lo siamo stati per millenni. Il confine tra bene e male è molto più sottile di quel che si pensa”. Mi pare chiaro che la mia ipotesi si sia imbattuta in un secondo dettaglio sufficientemente probante. Riprendo in mano il pressbook, e seguito a leggere. Ci siamo! Se è vero che tre indizi fanno una prova, direi che leggendo la frase che segue, ci siamo per lo meno molto vicini: “Fino alla fine non vuole essere semplicemente visto, ma vissuto, perché tratta di ciò di cui le nostre vite hanno un silenzioso e costante bisogno: la spinta a superare le barriere, a non accontentarsi di un’esistenza preconfezionata e programmata.”
da sinistra a destra: Francesco Garilli, Enrico Inserra, Lorenzo Richelmy,  Elena Kampouris, Saul Nanni 
Proviamo dunque a elaborare la nostra tesi: dopo aver realizzato una serie di pellicole molto romane e decisamente generazionali (da Ecco fatto a Ricordati di me; e poi, più tardi, Baciami ancora e Gli anni più belli), in uno stile dolceamaro che ha ricordato il cinema più sentimentale di Dino Risi ed Ettore Scola; dopo essersi cimentato ai massimi livelli con la “mecca del cinema” trasferendosi per una decina di anni e quattro film a Hollywood (La ricerca della felicità, Sette anime, Quello che so sull’amore, Padri e figlie); oggi Gabriele Muccino – forse perché contagiato da un contesto planetario così cruento – decide di cambiare quasi tutto, sceglie di visitare il lato oscuro della vita, sposando per la prima volta tutte le sfumature del nero, spingendosi a indagare i generi per lui inediti del thriller e del mafia-movie. Per farlo mette in scena la storia di una ragazza californiana, Sophie (anche questa è una novità non da poco nella filmografia di Muccino: la protagonista è una donna, che pilota il plot sempre più vorticosamente), una ragazza di provincia americana che giunge in Italia per elaborare il lutto della morte del padre. Una donna compressa e forse depressa che atterra a Palermo alla inconsapevole ricerca, se non della felicità, forse per lo meno di un ubi consistam che le consenta di dare un senso e un verso alla sua esistenza. Nuotando verso l’ignoto (rappresentato metaforicamente dallo scoglio di una spiaggia di Mondello da dove un gruppetto di ragazzi locali si tuffa gioiosamente coniugando innocenza e incoscienza), la ragazza volta le spalle alla giudiziosa sorella che vorrebbe continuare a farle visitare i tesori architettonici del Belpaese (e così facendo volta metaforicamente le spalle al suo rassicurante passato made in Usa, fatto di sogni artistici abortiti e di un lavoro da Starbucks par sbarcare il lunario). Fatto questo primo scarto di lato, inizia una sarabanda tumultuosa fatta di amore e sangue, di ebrezza e vertigine, di sesso e di morte. Uscendo quasi per caso (la visita a Palermo non era stata programmata) dalla comfort zone del suo bozzolo rassicurante, Sophie decide finalmente di vivere rischiando perciò di morire. Muccino: “Le manca la vita che non ha veramente mai vissuto, perciò continua a fare delle scelte consapevolmente rischiose. Vuole vivere questa ultima notte di vacanza e di passione in modo definitivo, e per farlo sarebbe pronta a morire” Il regista de L’ultimo bacio, che sa tenere in mano la macchina da presa come pochi in Italia (a proposito, qui si nota per la prima volta l’uso di un espediente linguistico piuttosto originale: durante le scene di inseguimento la cinepresa del regista sta incollata ai quattro protagonisti dentro all’abitacolo, essendo manovrata da un tecnico sul tettuccio dell’automobile, una sorta di variante “on the road” ai suoi celeberrimi piani-sequenza “travelling”), ha dichiarato di essersi ispirato ai grandi classici del cinema statunitense degli anni ’80 come Fuori orario di Martin Scorsese (ma io aggiungerei anche il coevo Tutto in una notte di John Landis); tuttavia quel che conta di Fino alla fine (il titolo inglese è, più appropriatamente, Here now, ovvero “qui e ora”) è la vita che esso evoca prepotentemente (come si è tentato di argomentare). Il cinema stavolta viene dopo, ma se lo firma Muccino arriva sempre forte e chiaro. E con la C maiuscola. PERCHÉ NO di  Giovanni Spagnoletti **(*) stelle  Aggiungo queste righe al pezzo positivo sopra di Alessio Accardo, anche in considerazione del fatto che all’uscita dalla visione di Fino alla fine, presentato in anteprima nelle giornate della Festa di Roma (sezione Grand Public), ho incontrato un amico, direttore di un Festival nel Molise, di parere diametralmente opposto al mio che ha affermato – nel mentre io scuotevo la testa esprimendo un’impressione negativa sul film – “ma scusami Giovanni, Gabriele Muccino gira da Dio, chi è più bravo di lui in Italia, cosa altro vuoi?” Al che è seguito un lungo simpatico battibecco in merito. Infatti, proprio a tale proposito, si tocca una questione centrale (ed irrisolta) per chi scrive da più o meno lungo tempo di cinema: basta l’abilità e l’occhio di chi dirige a fare un buon film? Mia personale risposta: “ni”, sì e no insieme, forse, ma alla fine propendo per il no. Ciò premesso veniamo al dunque. Romano, classe 1967, il nostro è qui giunto alla sua tredicesima opera cinematografica e, come già ricordava sopra Accardo, ha vissuto una importante trasferta oltreoceano (il che non è certo cosa da poco e da tutti nel nostro paese). L’esperienza internazionale, dunque, non gli manca e neanche la capacità di realizzare con successo dei film importanti (e/o controversi) come ha più volte dimostrato nella sua carriera. Questo, poi, come ha dichiarato lui stesso: “è stato realizzato in due versioni distinte e indipendenti: una in inglese e una in italiano. Per non perdere il contrasto e il dialogo tra due mondi che si incontrano, ogni scena è stata girata in due lingue”. Gabriele Muccino non è, però, come il suo quasi coetaneo Paolo Sorrentino (altro autore, spesso e volentieri, discusso come dimostra, anche sulle nostre pagine, il suo ultimo Parthenope), un filmmaker per il quale si è coniato un termine ad hoc per definirne, nel bene e nel male, uno stile inconfondibile, tutto suo, persino manieristico. Il che, tradotto in banali soldoni, significa anche, nel nostro caso, che l’abilità inventiva si deve accompagnare ad una storia che tocchi e/o commuova lo spettatore al di là della capacità tecnica, del virtuosismo visivo con cui essa è narrata. Per Fino alla fine, come per il precedente Gli anni più belli (2020), si tratta di un lontano remake, questa volta di un film non così celebre come nel primo caso del capolavoro di Ettore di Scola C’eravamo tanto amati (1974), bensì di una ben più dimenticabile opera tedesca, Victoria di Sebastian Schipper, passata in Concorso alla Berlinale del 2015 e fugacemente uscita in Italia due anni dopo. Tuttavia, c’è una certa stretta somiglianza tra il lavoro di Schipper e quello di Muccino non soltanto a livello di trama e cioè una storia di base molto simile dove, mutata la location da Berlino a Palermo, si narra di una straniera che passa una nottata/giornata assolutamente memorabile con un gruppo di balordi, tra cui, con uno, ha avuto una sorta di subitaneo colpo di fulmine amoroso. La particolarità, però, di Victoria  stava nel fatto che era tutto girata in un infinito, pirotecnico piano-sequenza di 140 minuti, tanto che il direttore della fotografia, il norvegese Sturla Brandth Grøvlen, aveva vinto l’Orso d’argento nella categoria “Outstanding Artistic Achievement” per la migliore fotografia. Ammirata però la prova e l’esecuzione tecnica, il film a nostro ricordo (mio e di chi scrisse la recensione all’epoca) non era affatto memorabile, per non dire di peggio.
Elena Kampouris, Saul Nanni
Stessa cosa ripeterei, paro paro, riguardo a Fino alla fine. Non c’è stato per me un solo momento del film – per altro lo ribadiamo ancora una volta: girato alla grande per la fotografia di Fabio Zamabion – in cui abbiamo creduto che la bella, innocente ventenne, l’aspirante pianista Sophie, (per altro ben interpretata da Elena Kampouris) possa diventare d’emblée una novella e rediviva Bonnie Parker, per riuscire a portare in porto la sua mirabolante impresa pseudo-criminale. Venendo a mancare la “sospensione dell’incredulità”, mi sono ritrovato a vedere un film dove ogni cosa diventava possibile e dove ad ogni momento mi domandavo: ma cosa sto vedendo? A questo punto, senza annoiare ancora a lungo il nostro lettore, lascio a lui il compito di decidere se e quanto può piacergli Fino alla fine, oltre a pensare che Gabriele Muccino, magari, potrebbe trovare e scrivere una storia più avvincente e originale. Il talento per metterla in scena, quello, di sicuro, non gli manca. In sala dal 31 ottobre 2024
Fino alla fine Regia: Gabriele Muccino; soggetto e sceneggiatura: Gabriele Muccino, Paolo Costella; fotografia: Fabio Zamabion; montaggio: Claudio Di Mauro; scenografia: Massimiliano Sturiale; costumi: Angelica Russo; musiche: Paolo Buonvino; interpreti: Elena Kampouris, Saul Nanni, Lorenzo Richelmy, Enrico Inserra, Francesco Garilli; produzione: Lotus Production (Leone Film Group) con Rai Cinema in associazione con Adler e con Ela Film; origine: Italia, 2024; durata: 117 minuti; distribuzione: 01 Distribution. Foto di Valentina Gioioso

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