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Quanto è precaria la parola “fratellanza” in tempo di guerra. E ancor più lo è “innocenza”. In un castagneto del fronte appenninico, lungo la Linea Gotica, un ragazzino brandisce il mitra. Un gioco infantile rivela un volto tragico. Il gioco è una recita scolastica di fronte alla macchina da presa, ma nel cinema di Giovanni Cioni il gioco acquista un’ineludibile dimensione di serietà. È, infatti, il gioco a costituire la prima forma di relazione con gli altri. In questa recita scolastica, ciò che prende vita è l’incontro con una materia, una testimonianza: i rami di questo castagneto, che ancora custodiscono i segni degli orrori che lo hanno attraversato.
I rami di un albero, una poesia di Ungaretti, il racconto di una nonna, un passato che torna a prendere forma. Che sia fisica, scritta od orale, ogni forma riacquista qui un nuovo significato nel contatto con le nuove generazioni. Cioni si muove in un intreccio di queste diverse espressioni per risvegliare nelle giovani menti una consapevolezza profonda, per condurle a un approccio storico non meramente passivo, ma capace di riscoprire l’arte di ascoltare, vedere e stabilire un legame con la materia memoriale.

Come in Invelle di Simone Massi, a riacquistare un’importanza cruciale è, in particolare, la parola orale, la comunicazione intergenerazionale tra nonno e nipote. Non è certo un caso che questa tematica torni di gran attualità, considerata la progressiva scomparsa della generazione che ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale. Nel suo tipico approccio di continuo sconfinamento tra documentario e finzione, Cioni fa sì tornare una voce incarnata dai propri protagonisti, ma fa anche re-interpretare questi racconti direttamente ai loro nipoti. Come nel film di Massi quindi si tratta di ridare corpo alla voce.
Qui, la prospettiva infantile si inscrive in una nuova veste, richiedendo ai bambini di calarsi nei panni degli adulti e di recitare il gioco di maschere tipico delle guerre, dominato da contrapposizioni nazionaliste e identitarie che il bambino disconosce. Tuttavia, questo sguardo infantile ci avvicina alla dimensione sensoriale della guerra: il terrore provocato dalla presenza del nemico, dallo scoppio improvviso delle bombe, da una quotidiana spaesatezza. La figura centrale si sposta allora da quella tipica del combattente ai disertori, le persone in fuga, gli inermi abitanti costretti ad abbandonare le loro case, nella speranza di poter, chissà un giorno, tornare.
Proprio perché i bambini nulla sanno di questioni identitarie, a un certo punto le esperienze evocate travalicano il contesto della Resistenza italiana, toccando piuttosto diserzioni di soldati serbi, fughe di famiglie rumene o soldati inviati nella campagna russa. Questo oltrepassare le barriere nazionali riunisce tutti i soggetti sotto un’unica bandiera, in cui si riconoscono fratelli: l’umanità. Un’umanità che si manifesta anche nei gesti di chi popola la Linea Gotica, nel rispetto di fronte alla morte di colui che è considerato il nemico, concedendo anche a lui una giusta sepoltura.
Giovanni Cioni, “l’intrepido” del cinema italiano, fa stavolta avventurare i suoi giovani interpreti nella selva della memoria dei loro nonni. Il compito non si rivela affatto una passeggiata di salute né un’escursione estiva, ma si trasforma in una vera e propria processione tra le tombe dei caduti al Cimitero della Futa, un tentativo di ricostruire le loro vite e il loro tragico destino, cercando di render loro giustizia.
Parole tremanti – Regia, fotografia e montaggio: Giovanni Cioni; interpreti: Alunni delle Classi 3d e 4b dell’Istituto Comprensivo Scarperia San Piero a Sieve; produzione: Lanterne Magiche; origine: Italia, 2024; durata: 70 minuti.
