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Una silhouette chiara viaggia su un treno tra le montagne. Chioma scura, spalle allineate, busto ben diritto. Un tunnel, alture incombenti, giochi di luce. Una donna attorno ai cinquant’anni alta ed elegante, rossetto rosso, stivaletti col tacco, vestito di biancore che ricorda la neve, cammina fiera costeggiando la monumentale diga idroelettrica della Grande-Dixence in Svizzera. Arriva in un hotel e chiede informazioni al cameriere riguardo ai clienti del bar. In cambio, sottobanco, gli passa una mancia chiamandolo per nome. Si va sedere al tavolo di un uomo solo, gli chiede di dov’è, di descriverle la città dove abita. Dopo una sigaretta fumata assieme propone di salire nella camera di lui. L’uomo, piacevolmente sorpreso, accetta. I due consumano un amplesso veloce, indolore. Poi la bella signora si riveste, saluta e se ne va: il rossetto è ancora intonso. Al ritorno di nuovo percorre il medesimo percorso che costeggia la diga, poi un treno la porta indietro, da dove è venuta. Imbuca una busta nella cassetta delle lettere e rincasa. Ad attenderla c’è suo figlio, un giovane uomo disabile, che suona un pianoforte accanto a una vicina di casa anziana che passa con lui alcune ore ogni martedì. Madre e figlio tornano nel loro appartamento.
La routine di Claudine (una Jeanne Balibar in forma eccezionale) e Baptiste (Pierre-Antoine Dubey) torna alla monotonia quotidiana: la donna, che di mestiere fa la sarta, accoglie le clienti a casa, aggiusta gli abiti, ne confeziona su misura, chiacchiera con la futura sposa, con la figlia di madre anziana a cui bisogna sempre restringere vestiti, condivide con loro pensieri e preoccupazioni. Baptiste è pieno di hobby, dipinge, colleziona immagini della principessa Diana, che adora, ascolta la musica di Johnny Logan. È l’estate del 1997.
Il ragazzo colleziona i ritagli ricavati da rotocalchi che la madre trova nel bar dell’albergo e che gli porta in regalo come dei piccoli trofei di caccia: lui accumula immagini di una donna idolo che incarna ideali di bellezza e purezza, Claudine raduna poche ore di piacere a soddisfare e placare l’inquietudine dell’intera settimana. La donna non cerca sentimento, coinvolgimento, una relazione sentimentale: necessita solo di godimento concreto, fissato in un tempo sospeso, che non esiste, in cui la madre di Baptiste si annulla nella donna dal vestito bianco e rossetto rosso che, sfrontata come una prostituta che però non vuole compenso, può dire a un uomo che lo desidera senza timore di venir mal giudicata.

È un rituale fisso, schematico, un do ut des in cui le regole le decide solo lei: quando il suo copione subisce un intoppo si secca, si scherma, fugge. Così capita con Michaël (Thomas Sarbacher) che, in funivia, dopo averla vista in azione in albergo, le raccoglie un foulard da terra e le fa un commento sull’indossare scarpe col tacco in montagna. È evidente che l’uomo la attrae (è un coetaneo prestante e brizzolato) e, proprio per questo, rappresenta un pericolo a cui non avvicinarsi. Il presente confonderà la donna e il suo habitat per sempre.
Il sesso tra adulti di mezza età non è solito essere rappresentato al cinema, forse poiché considerato scandaloso o poco gradevole da vedere: Maxime Rappaz, con la sua opera prima, sfida questo tabù con scene esplicite di rara bellezza. Con fotografia raffinata, luci di taglio, chiari scuri pittorici, i corpi maturi reclamano un piacere che è diritto umano che trascende il tempo: Balibar e Sarbacher si offrono alla macchina da presa senza timore né vergogna, trasmettendo passione e godimento, carnalità esaudita, appagamento erotico, avvicinamento progressivo che passa dal corpo al cuore. Tutto va diversamente da come Claudine voleva che andasse, lo tsunami la travolge, l’estate avanza, il suo essere madre dedita e sacrificata viene coperto da un velo di possibilità individuali non attese, davanti alle quali si ritrova incapace di agire con coerenza e raziocinio: il castello di carte traballa, con un soffio andrà a rotoli.
La sceneggiatura tiene tesa la corda del melodramma nei limiti della verosimiglianza: i personaggi viaggiano per un’ora e mezzo sul crinale, simbolico, della diga, le parole, i corpi, le atmosfere sostengono a pieno una storia intensa e coinvolgente, raffreddata nella ricercatezza delle mise di Claudine, negli abiti che si è fatta da sola, esaltando le forme, a raccontare una donna che ha speso metà della sua vita a proteggere qualcuno che non è se stessa. Senza moralismi, coraggiosamente, con grande rispetto per i caratteri umani la storia di un pomeriggio a settimana diventa la misura di una vita intera.
In sala dal 12 dicembre 2024
Solo per una notte (Laissez-moi) – Regia: Maxime Rappaz; sceneggiatura: Marion Vernoux, Florence Seyvos, Maxime Rappaz; fotografia: Benoît Dervaux; montaggio: Caroline Detournay; musica: Antoine Bodson; interpreti: Jeanne Balibar, Thomas Sarbacher, Pierre-Antoine Dubey, Véronique Mermoud, Gianfranco Podigghe, Alex Freeman, Philippe Schuler. Marco Calamandrei; produzione: Golden Egg Productions; origine: Francia/Svizzera/ Belgio, 2023; durata: 92 minuti; distribuzione: Wanted Cinema.
