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Voto
Tra commedia borghese e psicodramma familiare, Casa en flames presenta fin dall’inizio una delle situazioni più topiche di entrambe queste forme di racconto: un gruppo di individui legati da legami di parentela in parte compromessi o sfilacciati- una coppia matura di genitori divorziati e i due figli con le loro altrettanto precarie situazioni sentimentali- che si riuniscono in una villa sul mare, scenario di una giovinezza e di un’infanzia sepolte sotto il disincanto di un’età adulta della vita, in procinto di essere venduta. La matriarca Montse, erede di quella casa da parte di una zia, ha deciso di venderla, forse perché simbolo troppo ingombrante di un passato idillio domestico forse mai realmente esistito, e in nome del quale la stessa donna stessa ha pagato un prezzo di rimpianti, rinunce, simulazioni. Una situazione che fa da macroscopico pretesto alle insoddisfazioni, le reticenze e le ambizioni degli altri componenti di quel gruppo di famiglia in un interno (con vista) : la figlia maggiore Julia è stancamente e apaticamente sposata con due figlie, non riuscendo a nutrire un’autentica passione per il marito abbastanza anonimo, e che cerca nella relazione sessuale con un amante più giovane il temporaneo soddisfacimento del vuoto emotivo che è convinta di avvertire dentro di sé; David è invece sotto ogni punto di vista il più piccolo, affetto da un infantilismo che lo porta ad essere dipendente dalla madre e dalle ragazze di cui si innamora, privo di quell’autostima e di quella sicurezza necessarie per affermare il suo sbiadito talento di cantautore. Il quadrilatero è chiuso dal padre, Carlos, che vorrebbe evitare la vendita della casa facendo leva su una ricattatoria e piuttosto spregiudicata manipolazione sentimentale e nostalgica.

Ma al regista Dani de la Orden, autore del soggetto sviluppato poi in script da Eduar Sola, non interessa far credere che, neanche per un attimo da contraddire poi in quello immediatamente successivo. La famiglia è un luogo di segreti e bugie che travalicano sui volti contriti e smarriti di una tavolata di prossimi congiunti, come nel film di Mike Leigh del 1996. E la casa in fiamme è annunciata subito da una perdita, prima ancora che ogni corpo e ogni cosa comincino a bruciare: Montse infatti, prima di recarsi verso la forzata reunion con i suoi cari, passa a trovare l’anziana madre e la scopre morta, peraltro già da giorni. Ma non avverte nessuno, neanche David che l’aspetta in macchina (e che comunque non vuole salire). La rimozione del cadavere, in un contesto che per una buona parte appare quello di una pochade da dialoghi e gag brillanti (David e Julia che cercano di nascondere fisicamente contro la fiancata della macchina Blanca, la nuova compagna di Carlos, per non farla vedere a Montse), è un’idea, anzi un tarlo, che si innesta nella mente dello spettatore, il quale ricorda la sua ingombrante presenza/assenza; un peso, o meglio una pena autoindotta da Monste , che durante l’arco del racconto darà segno di uno squilibrio emotivo e mentale, la cui negazione, si capirà, ha rappresentato la labile fondamenta che ha tenuto insieme quel tessuto di rapporti. Il fatto che soprattutto nella prima parte ci sia dell’ironia , pur sapendo che la protagonista ha abbandonato in stato di decomposizione un corpo affettivo ed identitario come quello della madre – è un fatto che lascia con un continuo retropensiero di disagio, come se si potesse percepire la scomodità nella quale anche i personaggi esterni-Blanca e Marta, la ragazza di David, ma anche Toni, il marito di Julia – si trovano fino al bisogno di autoespellersi, di togliersi di mezzo, di diventare anch’essi cadaveri ambulanti di un corpus familiae incapace di comunicarsi qualsiasi verità, dalla più banale alla più estrema. In un gioco di inganni resi trasparenti da un’essenziale messa in scena l’ingresso di Blanca, che fa la psicologa, introduce palesemente la dimensione interiore e inconscia: è lei infatti a proporre il gioco che da il titolo al film, ovvero immaginare il volto di chi potrebbe venire a salvarci nel caso ci trovassimo intrappolati in una casa in fiamme.

Anche qui, nessuna edulcorazione o romanticismo; la maternità è affrontata di petto nel suo essere un fardello cosi avvilente da spingere Julia a pensare di gettare le sue due bambine petulanti e il succube consorte nel fuoco dal quale erano venuti a salvarla. La difficoltà di un approccio cosi audace in questo caso , per di più con un materiale talmente incandescente, sta nel tenere insieme, con precisione e lucidità, tutti i piani e farli intersecare in una maniera che risulti fluida e non macchinosa. Bisogna ammettere che de la Orden non forza troppo la mano, sceglie un tono anche dimesso con delle improvvise accelerate- Marta che comunica a David di volerlo lasciare poco prima di un lancio in volo con il paracadute-e cerca di smorzare la possibile retorica con la svolta amara che si affaccia in continuazione dietro ogni angolo della villa in dismissione. Ci sono però dei punti morti nei quali irrompe troppo programmaticamente, e frettolosamente, la rivelazione a catena del desolante spaccato umano che vuole rappresentare: fedifraghi, truffatori, narcisisti, mitomani… Si tocca il fondo, con abbondante utilizzo di spiegazioni, per giustificare la critica al dispositivo famiglia, come se la semplice osservazione fenomenologica non bastasse da sola a definirne le implicite fragilità e contraddizioni, come il carnale e istintivo attaccamento che la tiene in vita. Ci si aspetterebbe un affondo più efficace, ad esempio sul ritrovamento della cassette e della videocamera con i famigerati filmini familiari, ma è forse una scelta ben precisa il rifiuto da parte di quasi tutti di rivedersi dentro quell’immagine di spensieratezza e serenità che non esiste più. Il tempo è l’altro grande rimosso, l’elefante che permea dentro ogni struttura-materica, psichica, immaginifica- e costringe a fare i conti con quello che è successo e che sta succedendo. Se il confronto verbale non è più possibile perché le parole sono ormai ridotte solo a rancore e accusa (la sceneggiatura ha proprio un’escalation di questo tipo), non resta che affidarsi ad un’immagine, e liberarne il potere distruttivo e rigenerativo; il valore di prova, e di messa alla prova, inconfutabile. La casa in fiamme diviene cosi il simulacro del ritrovato senso di una nucleare comunità, di un contatto, una vicinanza, un abbraccio. O anche il coming back di una borghesia che balla impazzita e disperata sul fascino non più discreto dei propri vincoli inceneriti.
Casa en flames – Regia: Dani de la Orden; sceneggiatura: Eduard Sola da un’idea di Dani de la Orden; fotografia: Pepe Gay de Liébana; montaggio: Alberto Gutiérrez; musica: Maria Chiara Casà; interpreti: Emma Vilarasau, Enric Auquer, Maria Rodriguez Soto, Alberto San Juan, Clara Segura, Macarena Garcia; produzione: Sabado Peliculas, Playtime Movies, 3Cat, Atresmedia Cine, ElioFilm; origine: Spagna, 2024; durata: 105 minuti.
