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Ci sono film molto difficili da recensire perché si ha la sensazione di andare a toccare qualcosa che dovrebbe restare intangibile, sono quei rari casi in cui un regista ha il coraggio di mettersi talmente a nudo, tanto che bisognerebbe restare un passo indietro di fronte a tanto dolore, a tanto lutto che, pure, proprio attraverso il film, grazie al film, l’autore tenta in ogni modo elaborare, di superare. Ciò che, appunto, rende oltremodo delicato ogni tentativo di descrivere, commentare, criticare film di tal sorta è il fatto che si capisce dalle prime immagini che non c’è neanche un’unghia di finzione, è tutto maledettamente vero.
Il grande regista lituano Sharunas Bartas, che ha appena compiuto 61 anni, quattro anni fa ha perso la figlia, all’epoca venticinquenne, investita, mentre era in bicicletta a due passi da casa, da un automobilista ubriaco. Era un’attrice promettente, per il padre aveva recitato nell’episodio lituano di Visions of Europe, e poi in Peace to us in our Dreams, con cui Bartas era approdato alla Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes del 2015.
Prima di questa tragica fine, come spiega Bartas all’inizio, la figlia, Ina Marija Bartaité, era venuta in Messico per partecipare a un film (stando alla sua filmografia, non mi risulta che ciò sia davvero avvenuto, ma poco importa). Fatto sta che Bartas, con la figlia più piccola Una, che avrà a occhio e croce dieci anni, decide di tornare nel posto dove la figlia era stata particolarmente felice e di provare a vivere nella laguna – formata dall’estuario del Tonameca, in una foresta di mangrovie, piena di animali (iguane, coccodrilli, uccelli di ogni sorta), nei pressi di un paesello intitolato Ventanilla (non distante da Puerto Escondido) – allo stato semi-selvaggio insieme alla bambina, un soggiorno pieno di silenzi, di qualche gioco con gli animali e verso metà del film di un dialogo, a dir poco, straziante, in cui viene ricordata la figlia, ovvero la sorella. Un ricordo fatto di domande a cui non è possibile dare una risposta, fatto di lacrime trattenute a stento, fatto di una impressionante circolazione di affetti. Ma Bartas, un uomo scarnificato, smagrito con i capelli lunghi e la barba incolta non sarebbe Bartas se insieme a questa storia privatissima e dolorosissima, non cogliesse l’occasione anche per fornirci una documentazione del villaggio presso il quale padre e figlia si sono accampati: le case, i dialoghi, le tradizioni, le canzoni osservati e ascoltati con distanza e con rispetto come nei suoi precedenti film semi-documentaristici. E Bartas non sarebbe Bartas se non restasse fedele al suo stile fatto di sequenze fisse e qualche piano sequenza, mai come in questo caso volti a produrre intimità e meditazione, nel tentativo di dare un senso a quanto accaduto, nel tentativo di trovare nei perenni cicli delle stagioni, della natura un conforto alla disperazione. Anche se poi, nell’illustrazione di un uragano, si capisce bene, che anche la natura conosce i suoi traumi e i suoi disastri.

In questo tentativo, come si diceva, Bartas è accompagnato dalla struggente bellezza della bambina, capace di alternare momenti di assoluta tristezza con i giochi a cui una bambina, pur traumatizzata, deve per forza aver diritto: dei marshmallows abbrustoliti al fuoco e poi mangiati con gusto, uno scivolo con le lunghe foglie di mangrovia, insieme a un amichetto appena conosciuto che si chiama Bryan. Mentre il padre fissa il vuoto e si lascia andare a qualche breve monologo.
I titoli di coda sono accompagnati da un altro testo straziante in catalano, ovvero Lo jardí de la mort, scritto e musicato dalla soprano Nuria Rial.
Lagūna – Regia: Sharunas Bartas; sceneggiatura: Sharunas Bartas, Geoffroy Grison; fotografia: Lukas Karalius, Alina Lu; montaggio: Lucie Jego, Alina Lu; interpreti: Ina Marija Bartaite, Sharunas Bartas, Una Marija Bartaite, Bryan Ordonez Ruiz; produzione: Studija Kinema, KinoElektron; origine: Lituania/ Francia, 2025; durata: 102 minuti.
