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Voto
Familiar Touch è qualcosa di speciale, è un film ma è anche un laboratorio di cinema, è qualcosa che fa pensare e anche una prova di recitazione, è uno strumento di riflessione su un tema che tocca tutti, il passare del tempo, la vecchiaia, la memoria. Familiar Touch è come quelle cose preziose che nascondi in un cassetto chiuso a chiave perché sono strazianti ma felici, affilate che ti ci puoi tagliare ma splendenti e profonde che regalano una bellezza unica che graffia gli occhi, un amore forte come un dolore.
Nella prima scena una signora decisamente anziana prepara con attenzione un pasto. Al tagliere sminuzza l’erba cipollina presa da un vaso tra i tanti di erbe aromatiche della sua finestra. Apparecchia con dovizia piatti posate tovaglia e tovaglioli. Attende qualcuno. La medesima cura la mette per abbigliarsi, si fa bella per costui, immaginiamo sia qualcuno che ama. Alla porta si presenta un giovane. Prima di sedersi a tavola i due chiacchierano di interessi comuni, il lavoro di lui, cose casuali dette con leggerezza. Dopo pranzo l’uomo le propone un viaggio, lei è entusiasta, prendono la macchina, arrivano in una magione confortevole che non è un hotel bensì una casa di riposo scelta, in un momento di lucidità, dalla donna, che è la madre del giovane.
Lo spiazzamento della donna, a dieci minuti dall’inizio del film, equivale allo spiazzamento dello spettatore che finisce in maniera automatica nella immedesimazione con la protagonista Ruth (una favolosa Katherine Chalfant che ha vinto, alla Mostra di Venezia del 2024, il premio Orizzonti Migliore Attrice), una donna che inizia a manifestare i primi sintomi di demenza causata da Alzheimer: Ruth è una bella anziana rimasta vedova, di professione chef. Ha un ottimo lessico, è educata, gentile, accondiscendente. Ci tiene all’aspetto fisico, non si sente bisognosa di assistenza continua, come comunica ai premurosi infermieri con cui ha a che fare dal momento in cui si trova a vivere nel centro. Quello che vediamo sullo schermo è l’adattamento graduale della protagonista a una realtà dai contorni slabbrati, chiusa tra le pareti dell’istituto ma flessibile e confusa nelle relazioni, nelle intenzioni, nella quotidianità. Ruth si attacca al contatto umano col dottore che la sottopone a test – che a volte ritiene corteggiatore, a volte parente, spesso medico empatico quale è – con le infermiere, con chi lavora in cucina dove lei è finita per caso e mai più andata via per via delle sue competenze, ancor vivide, di come cucinare la ricetta del borsht (la variante yiddish della minestra di origine ucraina, boršč).

Con la perdita della memoria arrivano confusione e smarrimento, senso di sconfitta. Ma la donna è tenace e coraggiosa, positiva e resiliente: perde pezzi di sé ma si gode la sospensione di un bagno in piscina, si sente molto cuoca e poco madre ma entra in contatto profondo col figlio Steven ballando leggera tra le sue braccia.
Nel film si parla poco, il linguaggio che piano piano sparirà nel presente di Ruth si assottiglia: le azioni spiegano, i movimenti parlano una lingua propria, il corpo si esprime al di là della parola, non necessita verbalizzazione. Da danzatrice la regista compone le scene con la fluidità di una danza, passi misurati nello spazio, macchina da presa fissa a raccontare le stanze comuni, la camera da letto, la cucina, primi piani di Ruth durante le visite, nella doccia, quando realizza “questo non lo ricorderò”.
Il lavoro è frutto della collaborazione di cinque settimane con i residenti e gli operatori della comunità di riposo Villa Gardens di Pasadena: la narrazione abbatte gli stereotipi sulla vecchiaia, sul ruolo delle persone fragili all’interno della società. Quello che vediamo è lo stato zero dell’incontro: il tempo si ferma e da quel momento nasce la comunicazione pura, fatta di sguardi, di contatto, di sensibilità a fior di pelle che diventa commozione, percezione, desiderio, autonomia, dolore. Nella pellicola si visualizza il linguaggio fisico della assistenza che è intimità. La regista Sarah Friedland ha tramutato in occasione il fatto di essere visti ogni volta, da chi sta perdendo la memoria, come qualcuno di diverso, badante, fratello, amico.
Familiar Touch non è un film buonista, non strizza l’occhio, non cerca pietà né consenso: racconta una storia con grazia e misura, partecipando con rispetto a un declino che disorienta e fa male a chi lo vive e a chi gli sta attorno. Ruth è un personaggio gentile, le cui maniere compongono un viso e un corpo parlanti, una mente abituata a lavorare incessantemente, colta nell’attimo in cui gira su sé stessa. Clamorosa la scena nel pre finale, in una notte nera che avvolge e stravolge.
È stato il film più premiato di Venezia 81 della sezione Orizzonti: migliore Opera prima, miglior Regia e, come detto, miglior Interpretazione femminile. Delicato e struggente, a suo modo terapeutico: assolutamente da vedere.
In sala dal 25 settembre 2025.
Familiar Touch – Regia e sceneggiatura: Sarah Friedland; fotografia: Gabe C. Elder; montaggio: Matthieu Tappnier; musica: Aacharee Ungsriwong; interpreti: Kathleen Chalfant, Carolyn Michelle Smith, Andy McQueen, H. Jon Benjamin; produzione: Rathaus Films, Go For Thurm;; origine: Usa, 2024; durata: 91 minuti; distribuzione: Fandango Distribuzione.
