
“Macché flirt!” Sbotta così Claudia Cardinale alla insinuazione forse un po’ impertinente proferita dalla bocca di chi scrive, spedito qualche lustro fa a Parigi per confezionare un omaggio tv in occasione di un suo compleanno. L’insinuazione consisteva nell’aver indagato su una presunta liaison che ella avrebbe intrecciato in passato col suo grande amico Alain Delon. Ma non c’era dispetto né stizza in quella recisa smentita, anzi semmai una divertita condiscendenza verso un pettegolezzo che, sì, dopotutto se non vero poteva pure essere verosimile.
Allora non lo sapevo, mi era sfuggito che il grande Alberto Moravia l’avesse descritta così: “Quando ride, i suoi occhi diventano due fessure nere, scintillanti con qualche cosa di monellesco, di scatenato, di intenso, di meridionale.” Eppure è precisamente quello che è accaduto in quel momento, nel suo elegante salotto con vista sul Lungosenna. Quelle righe fulminanti non c’erano scritte nel librone allora appena uscito (Io, Claudia tu, Claudia; biografia scritta a quattro mani con la giornalista Anna Maria Mori, Sperling & Kupfer, 1995) da cui mi feci scortare nel mio viaggio Milano-Parigi a intervistare colei che la stampa internazionale aveva definito “la donna più bella del mondo”, negli anni ’60 che furono la golden age sua e del cinema italiano.
Eppure in colei che David Niven descrisse come “la più bella invenzione italiana dopo gli spaghetti!”; in quella che “Paris Match” ribattezzò “CC” facendola rivaleggiare con BB, (ovvero Brigitte Bardot) nella diva italiana più amata di tutti i tempi insieme a Sophia Loren non c’era alcuna posa altezzosa, nessun fastidioso divismo; come pure sarebbe stato lecito attendersi da un’attrice che aveva sin lì girato oltre cento film, inclusa una breve ma intensa parentesi hollywoodiana calcando gli stessi set di John Wayne e Rock Hudson, di cui divenne amica aiutandolo a dissimulare l’allora scomoda omosessualità.
Macché, nessuna spocchia piuttosto invece la stessa naïveté che le aveva permesso molti anni prima di entrare nel cinema quasi per sbaglio, finendo senza rendersene conto a recitare accanto a Omar Sharif sul set di un film franco-tunisino che le aprì suo malgrado la strada del successo; e poi la nonchalance con cui vince il concorso di bellezza che la trasforma nella “più bella italiana di Tunisia”; l’indolenza svagata con cui frequenta il Centro sperimentale di cinematografia per appena un trimestre. Tutte caratteristiche rimaste ancora intatte nel nuovo millennio, davanti alle mie domande sì indiscrete ma non fino al punto di increspare quel sorriso monellesco di cui parlava Moravia; subito pronto a erompere nella più squassante delle risate – come ognun sa – per lo meno a partire dai tempi de Il Gattopardo (1963), anche se a ridere allora era la sua doppiatrice Solvejg D’Assunta, venendo ella fino ad allora invariabilmente doppiata. Ci vorrà il genio di Federico Fellini a sdoganarla quella voce roca e fanciullesca che non aveva voluto nessuno, proprio nello stesso anno del capolavoro di Visconti, quando le ritagliò su misura il ruolo della “ragazza della fonte”, adorata da Mastroianni in 8½, dove Claudia interpreta nientemeno che sé stessa. Ed è solo uno dei tanti aneddoti legati a quei due film che la nostra girò contemporaneamente trasferendosi compulsivamente da un maestro all’altro: uno rigoroso fino alla maniacalità, l’altro amante dell’improvvisazione; uno che la vuole bruna, l’altro mora. Nemici per la pelle, come è noto, però uniti dall’amore per lei, che entrambi vezzeggiano chiamandola Claudina.
Questo però sarebbe accaduto dopo, molto dopo; all’apice della sua carriera: prima c’era stata la nascita a Tunisi da genitori di origine siciliana, e quel nome genderless ante litteram: Claude: “Un nome che in Tunisia si usava sia per i maschi che per le femmine, e a me stava benissimo, perché io ero un maschiaccio” E giù un’altra risata, soffocata dall’ennesima sigaretta, che tanto la voce roca ormai è un marchio di fabbrica e nessuno la può biasimare. E ancora aneddoti sapidi, che è come sfogliare la storia del cinema italiano: il vero esordio nel film che inventa la “commedia all’italiana”, I soliti ignoti (1958) con lei che crede sia giusto sbattere la porta sul grugno di Renato Salvatori e il regista Mario Monicelli che le rimprovera: “Ma guarda Claudia che nel cinema si fa per finta!”
La vera scuola di cinema, altro che Centro sperimentale: recitare sul set di un maestro come Pietro Germi nell’adattamento cinematografico di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, in Un maledetto imbroglio; durante il quale il regista ligure le insegna a stare a suo agio davanti alla cinepresa che “da allora divenne una mia complice”. Il rapporto non semplice con Marcello Mastroianni sul set de Il bell’Antonio, che segna l’inizio del suo sodalizio professionale più importante, quello con Mauro Bolognini col quale girerà sei film e capirà per sempre che per fare bene questo mestiere un’attrice deve seguire il suo regista come fosse un Dio. Così sarà pure ne La viaccia sul cui set conosce un altro divo francese, Jean-Paul Belmondo col quale però il flirt ci fu. Il valzer de Il Gattopardo, certamente; ma soprattutto la risata – lo abbiamo già detto: “Luchino voleva che la mia risata fosse esagerata, quasi sguaiata. Claudina – mi diceva – di più di più. Ah, Luchino: abbiamo avuto un rapporto speciale, unico, con Luchino: mi parlava in francese”. Il quale infatti l’avrebbe voluta anche nel cast del suo ultimo film, il testamentario L’innocente, ma lei non poté accettare, pervia delle code legali del divorzio da Franco Cristaldi, che l’aveva trasformata certamente in una diva, assumendola nella sua “Vides Cinematografica” ma al prezzo di tarparle le ali. Tanto e vero che quando nel 1974 incontrerà sul set de I guappi il regista napoletano Pasquale Squitieri se ne innamorò perdutamente recuperando la sauvagerie della sua adolescenza perduta, quando si chiamava Claude e rimase incinta a 17 anni di un uomo rimasto per sempre ignoto: il frutto di quell’amore tossico fu Patrick, fatto nascere all’estero da Cristaldi e presentato per anni come un suo fratellino, prima di confessarsi ai microfoni di Enzo Biagi.

Un periodo rutilante, quello della Vides, che adotta per lei la politica dei molti ruoli ma brevi, possibilmente al servizio di registi da pedigree inappuntabile, come lo statunitense Blake Edwards, col quale gira uno dei sui primi film hollywoodiani, che fu peraltro il cult-movie La pantera rosa, sul cui set per rendere una scena più verosimile viene diffuso nell’aria uno strano profumo di hashish. Ancora: la manata sul sedere di Jason Robards nel più compiuto “spaghetti-western” di Sergio Leone, C’era una volta il west, per il quale il sommo Ennio Morricone le dedicò uno dei motivi più indimenticabili, l’epico “Tema di Jill”. “Però non mi sono spogliata, non mi sono mai spogliata, su nessun set”. La parentesi romanesca di Nell’anno del Signore di Luigi Magni, quella australiana accanto ad Alberto Sordi in Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata di Luigi Zampa. Il “cat-fight” ne Le pistolere con Brigitte Bardot che quindici anni prima era stata il suo idolo.
Poi il lento declino, anche per l’ostracismo voluto da Cristaldi che prima fece la sua fortuna e poi ne accelerò una certa precoce eclissi. Però a quel punto Claudia, imbrigliata fino ad allora da regole, protocolli, agenti e segretarie particolari, era ritornata Claude; e con Squitieri messo in piedi un rapporto più sano e messo al mondo una secondogenita che si chiama come lei; Claudia stavolta.
Oggi non cammina più tra noi la Cardinale e quel fantastico appartamento parigino vista-Senna non so dire che fine abbia fatto (si è spenta a Nemours, nell’Île-de-France); e però, proprio come un altro suo famoso collega bello quanto lei, come Robert Redford, di cui di recente all’Ortigia film festival ha proiettato A piedi nudi nel parco, nel godimento del pubblico presente; Claudia Cardinale vive ancora e per sempre nella nostra memoria di spettatori. Dobbiamo solo decidere se la vogliamo veder volteggiare con Burt Lancaster il valzer più iconico del cinema, inchiodare Mastroianni\Fellini al suo narcisismo ricordandogli che se non può ricattarsi è “perché non sa voler bene”; abbassare lo sguardo modesto difronte all’intemerata di Ferribotte che le impone contegno: “Cammela, componiti!”; vestire i panni subalterni e viziosi della Carla de Gli indifferenti; oppure quelli fieri dell’unica eroina di un cinema peraltro maschile e maschilista come quello di Sergio Leone; guardare in tralice con l’occhio torvo Alberto Sordi che la sta imbrogliando nell’aeroporto di Sidney; perorare la causa del popolo ebraico nel melodico romanesco prestatole da Rita Savagnone in Nell’anno del signore; assistere ai sogni folli di Klaus Kinski sul set amazzonico di Fitzcarraldo di Werner Herzog. O ridere sguaiatamente alla battuta impertinente di Alain Delon, col quale – ormai è chiaro – non ci fu alcun flirt. “Macché flirt!”
