Il paesaggio che diventa espressione e trasfigurazione dell’incontro tra realtà e finzione, immaginazione e fattualità, testimonianza e coercizione: pur essendo un documentario, per antonomasia il linguaggio della realtà al cinema, Shadowland, diretto dal finlandese Otso Tiainen, sceglie una forma di rappresentazione che si rifà direttamente al cinema horror più esplicitamente legato all’esoterismo e all’occultismo.

In particolare l’indagine ruota intorno a un complesso di villaggi situati intorno alla valle dei Pirenei, Rennes-les-Bains, Rennes-le-Château e Montségur, e a un personaggio carismatico e controverso, Richard Stanley, un regista, sceneggiatore e produttore sudafricano che conobbe una certa notorietà all’inizio degli anni ’90 (la sua travagliata partecipazione allo sfortunato remake de L’isola perduta (1996), poi diretto da John Frankenheimer, è stata perfino ricostruita in un documentario) e che poi ha continuato a districarsi in un sottobosco produttivo tra cinema indipendente e ambizioni hollywoodiane, tra documentari e opere crossover tra fantascienza e film dell’orrore (Il colore venuto dallo spazio, 2019, da H.P. Lovecraft, il suo ultimo lavoro, di cui vengono fatti vedere dei frammenti, inclusa la losangelina conferenza stampa con il protagonista Nicholas Cage).
Quando lo incontriamo muoversi con un’espressione sul filo dell’esaltazione e della trance, e un tono di voce basso tra i boschi e le montagne di quella parte isolata ed estrema della Francia, sembra aver definitivamente incarnato l’immaginario del suo cinema, tanto nelle cose che dice e nel modo di agire, quanto nelle frequentazione di membri appartenenti a comunità, sette, associazioni, o individui semplicemente rispondenti a un loro personale bisogno di contatto con una dimensione diversa da quella della routine quotidiana, oppure portati dalla necessità di trovare discendenze e appartenenze di genere rispetto a una mitologia derivativa e digressiva intorno al cristianesimo. È Il caso delle donne che si riunisco nel nome della stirpe di Maria Maddalena e Gesù, la versione apocrifa riportata anche nell’intreccio principale de Il Codice Da Vinci , il best seller di Dan Brown tradotto in film da Ron Howard.
Richard Stanley occupa la posizione di informale capo spirituale e carismatico di questo gruppo di persone alla ricerca di un senso nascosto, ancestrale e divino della vita naturale e di quella biologica, una pratica di condivisione che vorrebbe risolvere le contraddizioni nella pura e basica attuazione di una ritualità: la pregheria deistica di derivazione monoteistica e l’invocazione pagana di una natura panteistica si sincretizzano senza soluzione di continuità, facendo slittare in continuazione l’alone di mistero e di imperscrutabilità nell’ambito più incerto e discutibile di un’ambiguità di intenzioni e di conseguenze. In alcuni momenti, è come se Tiainen costruisse delle scene che seguono il copione di un B movie sui movimenti d’ispirazione new age e su singoli invasati che utilizzano gli elementi della natura in una funzione strumentale e consolatoria, la messa in scena di una condizione alternativa che prova ad eludere implicazioni e responsabilità. Al di fuori dalla formulazione di giudizi e di interpretazioni, la regia introduce gradualmente, tra il perimetro avvitato di quel microcosmo spoglio e chiuso, lo sfaldamento di un fatto in corto circuito con ii ritratto idealista e bucolico che ne viene descritto dai protagonisti e apparentemente coadiuvato dalle immagini. Stanley, sulla scia dell’esplosione del fenomeno del MeToo, ovvero la raccolta di testimonianze a catena di donne che hanno subito stupri e abusi sessuali di varia natura da parte di personaggi, produttori, registi, attori, all’interno dell’industria cinematografica hollywoodiana (c’è da dire che il suo primo lungometraggio, Hardware- Metallo letale, venne distribuito dai fratelli Weinstein, tra cui quell’Harvey indicato da più vittime come il più abusante dei responsabili), viene accusato di violenza domestica dall’ex compagna Scarlett Amaris. La questione che interessa Tiainen non è quella di analizzare la portata di quel caso, utilizzando la vicenda che ha scelto di raccontare come emblematico esempio del potere coercitivo del maschile esercitato in ambiti apparentemente speculari (la neocapitalista società dello spettacolo, strutturalmente fondata sullo sfruttamento economico delle risorse umane e materiali , e la comunità d’impostazione mistico/religiosa, basicamente costituita sul rifiuto della ricchezza e sul ritorno ad una primigenia armonia e simbiosi con la natura). Egli cerca, invece, di esplicitare l’ambivalenza della maniera di porsi di Richard, che manifesta la tensione disincarnata e trascendente per essere proiettato verso un altrove ultraterreno, come nella sequenza del battesimo nel torrente celebrato dalle sue amiche sacerdotesse, quando completamente denudato si rivolge alla luce del sole nella simulazione di una presunta rinascita; salvo che ne vengono filmati nella loro pienezza la massiccia e carnale fisicità e il volto definito nei lineamenti della multiculturalità africana, navaja, orientale, nonché l’andamento e il portamento da santone post hippie. Qualcuno che appartiene a questa terra insomma, e non solo nella declinazione più lirica e metafisica di un capo tribù destinato a mettere in contatto mondi e culture lontane nello spazio e nel tempo. Un progetto ambizioso che utilizza, tra gli altri, il concetto di “Zona” rappresentato in forma allegorica e sublime nello Stalker di Andréj Tarkóvskij (di cui viene citato un breve spessore), fraintendendone però il senso profondo e simbolico di manifestazione psicosomatica, attraversabile e tangibile, di desideri e paure radicati ed estirpati in un perpetuo loop spazio-temporale nella e dalla mente umana.

Il contro campo che arriva a demitizzare una narrazione ben più semplificata non può che essere che la testimonianza, ripresa nella convenzionale modalità della ripresa frontale, di Scarlett Amaris che cala il finale sipario demistificante su quell’uomo e sulle sue aspirazioni di entrare in un lignaggio di devozione o di santità. Nonostante l’esaustiva durata di un’ora e mezza, c’è qualcosa che risulta squilibrato nel riportare le due prospettive, con uno scarto che potrebbe paradossalmente pendere nei confronti di Richard Stanley, non in quanto a sostegno delle sue ragioni o della sua filosofia, bensì in un’ottica di fascinazione e di turbamento, mettendo a rischio gli sforzi per un atteggiamento d’osservazione da parte della regia, che ne riproduca una fenomenologia e non la sua (auto) celebrazione.
Manca un affondo nel passaggio dalla prima parte, che sembra veramente un’inchiesta sulle trame segrete del soprannaturale e dei suoi adepti, e il ribaltamento percettivo sul soggetto chiamato in causa, da guida e anfitrione per un sottosuolo di culti e misteri a imputato di un processo, condannato peraltro senza una reale pena da scontare che non sia andata di là di un monito o di un’ammonizione (nel 2023, una volta ridimensionato l’effetto MeToo). Viene accuratamente evitata la tragicità e la complessità dei personaggi herzoghiani, convintamente perduti nelle allucinazioni e nella fantasie delle proprie prescritte architetture oniriche e immaginifiche, e di Stanley non rimane l’inquadratura opaca di una figura che si mossa sul terreno friabile tra un’affabulazione e l’altra.
Shadowland non solo come ombra della luce, ma anche oscuramento di un’etica contraffatta.
Shadowland – Regia: Otso Tiainen; sceneggiatura: Kalle Kinnunen, Otso Tiainen; fotografia: Max Smeds, Peter Flinckenberg; montaggio: Jussi Heikkinen, Mikko Sippola; musica:Timo Kaukolampi, Tuomo Puranen; produzione: Kalle Kinnunen per Oy Bufo Ab.; origine: Finlandia, 2025; durata: 99 minuti.
