Si è spenta a 93 anni a Roma il 9 dicembre 2021, Lina Wertmüller. Dopo un’intensa attività negli anni Cinquanta di sceneggiatrice, dialoghista e regista (per il teatro di burattini di Maria Signorelli, il cabaret, la commedia musicale di Garinei e Giovannini e la televisione, realizzando tra l’altro la regia della trasmissione Canzonissima), dopo avere esordito come aiuto regia di Federico Fellini in 8 ½, debutta nel 1963 con I basilischi. Passata alla televisione realizza prima Il giornalino di Gian Burrasca (1964), adattamento dal romanzo di Vamba e poi due musicarelli con Rita Pavone, sotto lo pseudonimo di George H. Brown, Rita la zanzara (1966) e Non stuzzicate la zanzara (1967).
Trai sui film successivi ricordiamo: Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), Film d’amore e d’anarchia (1973), Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974), Pasqualino settebellezze (1975), interpretati da Giancarlo Giannini e Mariangela Melato. E poi, tra gli altri, Sotto… sotto… strapazzato da anomala passione (1984), Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti (1985).
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C’è un’opera nella filmografia di Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich, comunemente nota come Lina Wertmüller che si chiama Film d’amore e d’anarchia – Ovvero “Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…” (1973). Si tratta di un titolo kilometrico come molte volte nella sua carriera di leggendaria, esuberante lunghezza che a mio parere condensa in una endiadi il nucleo centrale dell’opera della regista romana: amore (per il rischio) ed anarchia (delle situazioni).
Come per tutt’altri versi Pier Paolo Pasolini – nessun paragone per carità -, la Wertmüller si rivolgeva, in anni lontani, sostanzialmente ad un pubblico, che, con un termine piuttosto impreciso e per comodità di comunicazione, potremmo definire “di sinistra” e sembrava arrivare al cuore del suo ideale fruitore attraverso un anticonformismo dissacratore e una carica, questa sì tutta sua, di dirompente, inalienabile vis comica. Era quello che la contraddistingueva nelle sue opere migliori nate tutte nei decenni Settanta-Ottanta del secolo scorso, e cioè la capacità di uscire (ma anche di entrare) dai generi, di rompere gli steccati, per creare qualcosa di insolito a partire da materiali “popolari”, tendenzialmente “bassi” o scurrili. Non a caso aveva rinnegato o quasi il suo esordio autoriale, per altro un film bellissimo, I basilischi (1963) per intraprendere un cinema di largo consumo popolare – dai musicarelli a tanto altro. O per valorizzare attori come Giancarlo Giannini o Mariangela Melato.
Il che – credo – è quanto ha disturbato una parte un po’ anodina della critica coeva del nostro paese – il suo essere al di fuori dei consueti canoni della commedia all’italiana per cercare di creare, con originalità, una tipologia di commedia grottesca (s)confinante nel surreale. Ciò ha costituito la ricetta vincente per cui è diventata famosa all’estero, la base per quello che il grande critico Tullio Kezich ha definito il “fenomeno planetario” rappresentato dalla regista romana. Non a caso è stata la prima donna in assoluto nella storia del cinema ad essere candidata all’Oscar come migliore regista, per Pasqualino Settebellezze (1977), e ad aver ottenuto un Premio Oscar onorario nel 2020.
L’argomentazione secondo cui l’immagine dell’Italia e dell’italiano trasmesso da diversi suoi film sarebbe modellata su quanto gli stranieri si aspettano di vedere dal nostro paese, è altrettanto banale ed ingenua quanto l’asserzione che il cinema costituisce una riproduzione naturalistica della realtà. La verità invece sta, a nostro avviso, nella straordinaria capacità della Wertmüller di essersi inventata dei personaggi-maschere fizionali a partire da alcuni caratteri tipici dell’ “Italiota” e di esser riuscita a far accettare ad un pubblico in parte composto da intellettuali e femministe (che in generale considerano il melò come fumo negli occhi) materiali melodrammatici in cui sincreticamente si mischiano la lotta di classe e quella trai sessi, dramma e farsa, pubblico e privato, miseria e nobiltà (di stili, argomenti, figure, ecc.).
È questo un mélange complesso dove il realismo non significa piatta fotografia dell’esistente e la politica fa capolino dietro un ghigno sarcastico – ed è un mélange vincente che ha funzionato per la parte più ispirata della sua filmografia dove spesso, però, si ritrovano dei film e delle produzioni televisive non degne del suo grande talento.
Così il principio di confondere sempre le carte in tavola, di scuotere anche con dei “colpi bassi” lo spettatore – e qui sta ad esempio una qualche vicinanza dello spirito della Wertmüller con quello ebraico-proletario per esempio del primo e poco “raffinato” Ernst Lubitsch – per ottenere un nuovo effetto sorprendente, alla fine è piaciuto, tanto che la regista italiana è stata accettata (ed accolta nel suo seno) anche dal movimento femminista che in diverse occasione sembrava ideologicamente più portato a fare dei distinguo che non a porgere la mano della conciliazione ad una eterodossa come lei.
E comunque una grande eterodossa nel cinema italiano è stata e ci resterà sempre, piacciano o meno i suoi film.
